Gaudenzio. Chi era costui? L’interrogativo manzoniano, che portò il nome del filosofo ateniese Carneade, secondo secolo avanti Cristo, a divenire sinonimo di persona quasi sconosciuta, potrebbe valere anche per Gaudenzio Ferrari. Eppure, nel suo Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti (1568), di lui scrive Giorgio Vasari «…. Pittore eccellentissimo, pratico et espedito, che a fresco fece per Milano molte opere… Lavorò ancora ad olio eccellentemente, e di suo sono assai opere a Vercelli et a Veralla molto stimate da chi le possiede». Eppure Giovanni Testori, scrittore e storico dell’arte, nel saggio Il Gran Teatro Montano, 1965, afferma, a proposito delle immagini e delle pitture realizzate dal Ferrari per le cappelle del Sacro Monte di Varallo «… tutta una tradizione antica e non mai espressa appieno, si fa forma vivente, immagine matura e, per l’appunto, teatro, in plastica e colori, sì che nella vicenda di una vita s’esprima come in uno spettacolo, la tenerezza d’ogni nascita e il dolore d’ogni morte». Eppure, ma sul fronte opposto, la maggioranza di coloro che hanno avuto modo di ammirare un affresco, un dipinto, una scultura di Gaudenzio, leggendone la firma si saranno certamente chiesti, appunto, chi era costui. Chi fosse, cosa abbia rappresentato nel panorama artistico italiano tra la fine del ’400 e la prima metà del ’500, è compito culturale, e per certi versi riparatore, di cui si è fatta carico la mostra Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari. Curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, e appena inaugurata, la mostra si articola lungo un percorso che coinvolge Varallo Sesia, Vercelli, Novara. Furono questi, infatti, i luoghi in cui maturò e raggiunse piena forza espressiva il genio gaudenziano. Figlio della Valsesia, nato nell’ancor oggi minuscolo paese di Valduggia intorno al 1480, Ferrari inizia il suo cammino presso la bottega milanese di Stefano Scotto. Torna una prima volta in Valsesia, dove esegue alcuni dipinti per i cantieri degli edifici francescani, decidendo di lì a poco di accrescere la propria esperienza a Firenze e Roma. Gli esordi del Sedicesimo secolo vedono il secondo e decisivo ritorno. Varallo, Novara, Vercelli, Arona si arricchiranno di affreschi, polittici, pale d’altare, che meritano pienamente il titolo di capolavori. Dal 1530 al 1536, il maestro amplia la sua attività a Casale Monferrato, Como, Vigevano. Nel 1534, il duca Francesco II Sforza lo chiama a decorare la cupola del santuario di Santa Maria dei Miracoli, a Saronno. I dieci anni che lo separano dalla morte, avvenuta il 31 gennaio 1546, Gaudenzio li trascorrerà a Milano, infaticabile sperimentatore del manierismo di Parmigianino, Rosso Fiorentino, Giulio Romano, Tiziano, Tintoretto. Tornando alla mostra, il Palazzo dei Musei di Varallo, l’Arca di Vercelli, il Broletto di Novara espongono, accanto al proprio patrimonio, prestiti italiani ed esteri. Tra di essi, quelli della diocesi novarese; della Galleria Sabauda, del Museo Civico d’Arte Antica e dell’Accademia Albertina di Torino; di Louvre, Städel Museum di Francoforte, Ringling Museum of Art di Sarasota, Szépművészeti Múzeum di Budapest, cui si aggiungono prestiti da collezioni private, per un totale di oltre cento dipinti, disegni e sculture, ordinati secondo un criterio cronologico. Contributo importante alla conoscenza della figura di Ferrari viene dalla scelta di esporre in parallelo lavori significativi di artisti suoi contemporanei e di alcuni seguaci. E poi le opere ‘immobili’, cioè i tesori lasciati dal valsesiano a paesi, cittadine, città. Ne dà saggio Varallo, settemila abitanti, un centro storico che le frequenti chiusure al traffico motorizzato consentono di apprezzare nei dettagli. Sulla piazza principale, piazza Vittorio Emanuele II, affaccia, in cima alla roccia di un promontorio, la collegiata di San Gaudenzio, circondata da un loggiato di ventotto archi poggiati su colonne. Forse di origini altomedioevali, venne ampliata a partire dal XVI secolo. Nel 1520 vi fu collocato il polittico Matrimonio mistico di santa Caterina di Alessandria, Cristo in pietà e santi. Sedersi su una panca della chiesa di Santa Maria delle Grazie è gesto istintivo, necessario per riaversi dallo stupore di fronte al tramezzo affrescato, Storie della Vita e della Passione di Cristo, 1513, undici metri di lunghezza per otto di altezza. I venti scomparti della parete, tutti di eguale misura, circondano la scena centrale della Crocifissione, costruendo una Biblia pauperum, Bibbia per immagini, destinata agli analfabeti. Grazia, dolcezza, dolore, luce, oscurità avvolgono lo spettatore, incredulo, disorientato da tanta magnificenza; timoroso di perdere il dettaglio di un paesaggio, di un volto, di un gesto, di un’architettura, di un decoro. Poco fuori Varallo, in frazione Roccapietra, il verde incornicia l’eleganza della cappella rinascimentale della Madonna di Loreto. Gaudenzio diede il suo nome a una Natività nella lunetta che sovrasta l’ingresso, e sopra l’altare agli affreschi dell’Angelo annunziante e della Vergine annunziata. Nel mezzo degli affreschi pose una Madonna del latte in terracotta policroma, di emozionante semplicità. Era il 1515. Poco oltre, poco più su, il bosco del Sacro Monte cominciava a popolarsi di statue, protagoniste di un racconto narrato nella lingua senza parole dell’arte. E proprio per questo, capace di una potenza inaudita.

IL SACRO MONDE DI VARALLO

 «Non è certo far romanzo… immaginar Gaudenzio… girar per il borgo; forse verso sera, deposti gli attrezzi nella Cappella,… scendere, poco prima del crepuscolo, lungo il Sesia, quando le ombre cadono giù dalle cime dei monti sul fiume e sulla piana, e guardare il super parietem e immaginarsi, immaginare; sentirsi crescere in cuore l’idea di un teatro, là dove, fin lì, non erano che cappellette, e proprio con la forza con cui glielo chiedeva la voce del suo popolo, mentre qua e là, nei boschi del super parietem si accendevano le lanterne, e le donne, tenendosi stretti i figli, attraversavano per l’ultima volta, in quel giorno, le strade, già vinte dalla paura degli spiriti che la notte, di lì a poco, avrebbe cacciato dai monti per tutte le vie burgi Varalli». Così si apre il saggio di Giovanni Testori, Il Gran Teatro Montano, già citato in precedenza. Feltrinelli lo ha ripubblicato nel 2015, a cinquant’anni dalla prima edizione, con la cura di Giovanni Agosti. Gaudenzio Ferrari, sotto il profilo artistico, fu la figura di spicco del cantiere del Sacro Monte di Varallo, rimasto aperto per quattro secoli. Ma altri nomi importanti, specie tra il ’500 e il ’700, contribuirono alla creazione del più prezioso tra i nove Sacri Monti di Piemonte e Lombardia, dichiarati nel 2003 dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. In breve la storia del complesso religioso che si inerpica nel fitto di un bosco fino a raggiungere la cima del colle, spalancando il panorama della valle e le luci sgranate del paese. Trent’anni dopo la conquista turca di Gerusalemme, avvenuta nel 1453, Bernardo Caimi, vicario dei frati minori di Milano e già custode del Santo Sepolcro, avviò il progetto di riprodurre la Città Santa in Valsesia, allora possedimento degli Sforza. Il 21 dicembre del 1486 papa Innocenzo VII lo autorizzò a ricevere in dono i terreni necessari alla costruzione super parietem, letteralmente ‘contro il muro’, cioè sulle pendici di una collina. Il denaro necessario arrivò da Ludovico il Moro, amico personale di Caimi, e dai contributi spontanei del popolo. Sull’ingresso della prima cappella, il Sepolcro, realizzata nel 1491, una scritta spiega la funzione del Sacro Monte: mostrare Gerusalemme a chi mai avrebbe potuto vederla. Il più antico gruppo scultoreo, eseguito dai fratelli De Donati, ultimo decennio del ’400, Pietra dell’Unzione, è oggi presso la Pinacoteca di Varallo. Scrive Elena De Filippis, direttrice dell’Ente di Gestione dei Sacri Monti «Queste sculture a grandezza naturale in legno dipinto rivelano nelle fisionomie dei volti, nell’abbigliamento, nella severa monumentalità delle figure, congiunta alla volontà di evocare le emozioni che animano i personaggi, la più aggiornata cultura rinascimentale lombarda». Da una guida francescana redatta nel 1514 (Gaudenzio è già all’opera da qualche anno) sappiamo che allora il Monte era composto da una ventina di cappelle. Nel corso dei secoli arriveranno alle attuali quarantacinque, per un totale di ottocento immagini scultoree. Ciascuna di esse, nota ancora De Filippis, accoglieva uno o più ‘misteri’, e tramite le pitture e le sculture indicava ai fedeli l’evento che vi era rappresentato, applicando visivamente la predicazione francescana. Gaudenzio conferì al racconto delle sue cappelle una straordinaria omogeneità, ‘inventò’ un dialogo, un’interazione, uno scambio, tra i personaggi effigiati nelle statue e quelli affrescati sulle pareti. A loro, il genio di Ferrari diede le sembianze della gente che animava la vita quotidiana: i valligiani, gli sdentati, gli ammalati di gozzo, i bambini, le donne, i vagabondi, i soldati, le nobildonne, i mercanti, che aggiunsero forza comunicativa e realismo a ogni singola scena. La collaborazione del maestro si concluse nel 1528, consegnando all’Italia, ma non solo, un’opera che da cinquecento anni riesce a sconvolgere, nella sua bellezza corale, credenti e non credenti. Andateci di notte, dentro il verde scuro del Monte, dopo aver oltrepassato l’ingresso rinascimentale. Le cappelle restaurate illuminano di colpo il cammino e dissolvono la notte nella scenografia della Natività, della Presentazione al Tempio, di Gesù e il manigoldo. È Gran Teatro l’Arrivo dei Magi, quinta cappella, davanti alla porta della stalla di Betlemme, circondati dal loro seguito. L’Arrivo si raccorda all’Adorazione dei pastori, settima cappella, dove Maria distoglie lo sguardo dal Bambino perché si è accorta della presenza dei Magi. È Grandissimo Teatro la Crocifissione, sintesi suprema del pensiero culturale e artistico di Gaudenzio. Potrete contemplarla per pochi minuti, dietro un vetro che ne protegge la fragilità. Caos, dolore, crudeltà, pietà, indifferenza impregnano la raffigurazione della morte di Cristo: i soldati romani che giocano a dadi sotto le croci, la folla dei curiosi che guardano verso l’alto, le pie donne annientate dal pianto, la dama con il capo chino e l’espressione assente… Riempite lo sguardo, e non stupitevi se avvertirete dentro di voi una sottile e acuta fitta di tristezza. Questo voleva Gaudenzio. Questo è riuscito, magnificamente, a rendere vero.

I SACRI MONTI DI PIEMONTE E LOMBARDIA

 Le motivazioni che nel 2003 hanno portato l’Unesco a decretare i nove Sacri Monti di Piemonte e Lombardia Patrimonio dell’Umanità, sintetizzano bene la particolarità di questi luoghi. Vi si legge infatti «La realizzazione di un’opera di architettura e arte sacra in un paesaggio naturale, per scopi didattici e spirituali, ha raggiunto la sua più alta espressione nei Sacri Monti dell’Italia Settentrionale… I Sacri Monti… rappresentano la riuscita integrazione fra architettura e belle arti in un paesaggio di notevole bellezza». Arte e natura si ripropongono con caratteristiche diverse ma sempre di notevole suggestione, oltre che a Varallo, a Belmonte, Crea, Domodossola, Ghiffa, Oropa, Orta, in territorio piemontese; a Ossuccio e Varese in territorio lombardo. Da un punto di vista per così dire spettacolare, è Oropa, mille e duecento metri di altitudine, a imporsi. Oltre al Sacro Monte, sul quale sorgono dodici cappelle innalzate nel XVII secolo, l’immensa area, su più livelli, comprende il santuario della Madonna Nera d’Oropa e una serie di edifici annessi. L’immagine risalente al XIII secolo, forse di provenienza valdostana, è oggetto di profonda venerazione. Oropa registra un traffico pressoché ininterrotto di pellegrini. Altro Monte da scalare ottenendo in premio un panorama fantastico è quello di Orta. Le venti cappelle e la chiesa di San Nicolao sono distribuite su uno sperone roccioso che guarda il lago e il borgo sottostanti. I lavori, iniziati nel 1590, rimasero in corso per oltre un secolo, creando un connubio di architetture che abbracciano Rinascimento, barocco, rococò e accolgono trecento e settantasei statue a grandezza naturale in terracotta policroma. Il percorso è dedicato alla vita e alle opere di san Francesco d’Assisi. Raccomandazione turistica: non programmate una visita o una fine settimana in occasione di festività, ponti e mesi estivi. Il delizioso paese di Orta si trasforma in una bolgia. La prima pietra del Sacro Monte Calvario di Domodossola, quasi al confine con la Svizzera, venne posata l’8 luglio del 1657. Furono i padri cappuccini Andrea da Rho e Gioacchino da Cassano gli artefici di un luogo in cui far rivivere ai fedeli la Passione di Cristo. Anche in questo caso i cantieri andarono per le lunghissime. Nel 1810, con la soppressione napoleonica degli ordini monastici, il Calvario cadde in stato di abbandono. L’intervento del teologo Antonio Rosmini, che vi fondò l’Istituto della Carità, rese possibile reperire i fondi, avviare i restauri e completare le quindici cappelle. Meritano attenzione particolare la cappella del Paradiso, dove è ambientata la Resurrezione, e gli interni del santuario del Crocefisso. Nutrito l’elenco degli artisti e degli architetti che si avvicendarono per quasi duecento anni nella realizzazione di strutture, statue, decorazioni, pitture murarie. Per informazioni, Centro di Documentazione dei Sacri Monti Europei, sacrimonti.net.

LA MOSTRA

Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, fino al primo luglio 2018, fino al 16 settembre a Varallo. Palazzo dei Musei, Varallo; L’Arca, Vercelli; Broletto, Novara. Alle tre sedi espositive si aggiungono chiese e musei su ciascuno dei tre territori. L’organizzazione offre la possibilità di effettuare visite guidate, scelta consigliata per comprendere e apprezzare l’arte di Gaudenzio nel contesto storico, religioso e politico che la vide fiorire. Molto esauriente e ben fatto il sito gaudenzioferrari.it. Il catalogo della mostra, oltre seicento pagine, 29 euro, edito da Officina Libraria, è una preziosa ed esclusiva antologia delle opere del pittore e scultore. Le immagini fotografiche di Mauro Magliani sono corredate dai saggi dei due curatori e dagli interventi di altri storici dell’arte

LA LOCANDA PERFETTA

La storia racconta che fu il Vescovo Bascapé, nel 1594, a decidere di far costruire, accanto al portale d’ingresso del Sacro Monte di Varallo, una locanda per gli esausti pellegrini. Pura carità cristiana? Diciamo di si, senza tuttavia dimenticare che sulla decisione pesò non poco l’atteggiamento dei devoti. Questi, infatti, si accampavano disordinatamente ai piedi del monte per dormire, mangiare e concedersi abbondanti libagioni. Il Vecchio Albergo Sacro Monte, edificato ben più tardi, ma sulle stesse fondamenta rinascimentali, continua a mantenere le caratteristiche e l’ospitalità delle locande di altri tempi. Immerso nel verde e nel silenzio, una grande terrazza, camere accoglienti, già così vale la sosta. Se poi ci aggiungete la sala da pranzo d’epoca con veranda, un ottimo menu del territorio accompagnato da eccellenti vini e dai prezzi molto onesti, capirete perché il Vecchio Albergo sia davvero sosta perfetta. L’onestà delle tariffe vale anche per le stanze. Info albergosacromonte.it