Ha scritto una volta Milan Kundera che «Il fochista» di Kafka, racconto pensato come capitolo inaugurale del romanzo incompiuto Il disperso, ha inizio come una barzelletta raccontata male su un tizio che ha dimenticato il suo ombrello e per andare a riprenderlo lascia a uno sconosciuto la propria valigia, con tutto quel che ha. Lo stesso si potrebbe dire dello strepitoso romanzo sulla burocrazia europea scritto da Robert Menasse, La capitale (traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli, Sellerio, pp. 445, euro 16,00), che comincia come una di quelle vecchie storielle in cui ci sono un italiano, un tedesco e un francese che fanno a gara per confermare nella mente di chi li ascolta vecchi stereotipi e pregiudizi.
Le figure che invece compaiono nel romanzo sono un pensionato ebreo, un burocrate tedesco, una donna greca rampante, un assassino polacco, un commissario belga e un maiale; a partire dallo sfolgorante primo capitolo, questo intreccio di personaggi e prospettive si avvia a comporre un racconto corale che non ha altri esempi recenti di livello anche solo paragonabile.

Da queste premesse, proprio come nel precedente kafkiano, tutto viene fuori, naturalmente, tranne una barzelletta, sebbene nel romanzo di Menasse non manchino momenti esilaranti. Ma anche questa è una vecchia storia. È stato Friedrich Dürrenmatt a scrivere per primo, nei suoi Problemi del teatro del 1954, che nella modernità la tragedia si è trasferita dall’agorà nelle stanze dei burocrati e lí si è trasformata in farsa perché sono ormai «i segretari di Creonte a liquidare il caso Antigone».

Un cerotto per l’anima
Robert Menasse, che nella sua lunga carriera di scrittore ha già mutato Don Juan in un redattore sessuomane e Faust in uno speculatore finanziario, è un discendente diretto di Dürrenmatt, e non meno del drammaturgo svizzero ha la capacità di rendere evidente come il grottesco delle sue storie sia il precipitato estetico di una civilizzazione ipocrita, che nasconde i resti della sua coscienza sotto il tappeto di una quotidianità narcotizzata dal lavoro di rimozione degli apparati amministrativi. Anche La capitale non fa eccezione. Esplicitamente. A un certo punto uno dei protagonisti, di ritorno da un viaggio a Auschwitz, ripensa a ciò che ha visto: «le camere a gas, i forni è tutto come nelle foto che conosceva. … Era – cosa? Non sapeva dirlo, non aveva parole per dirlo, perché “tragedia” non era più una parola nella sua lingua, bensì una sorta di cerotto per l’anima».

La vicenda del romanzo, difficile da riassumere dal momento che alla fine arriva ad accumulare una ventina di personaggi e altrettante prospettive su uno spettro di eventi vastissimo, si può ridurre a poche linee principali. In uno stesso momento, succede a Bruxelles che un vecchio ebreo stia per lasciare la casa abitata per sessant’anni, che qualcuno commetta un delitto in un albergo e un commissario minacciato da una qualche grave malattia avvii un’indagine dal destino incerto; accade, inoltre, che un maiale si aggiri per la città e, dopo aver seminato lo sconcerto, scateni una reazione mediatica tale da candidarlo a icona della capitale belga; che un vecchio economista viennese invitato a un congresso della Ue si disponga a lanciare una proposta scandalosa; che negli uffici della Divisione Cultura si prepari un grande evento, il Jubelee Project, per la celebrazione dei cinquant’anni della Commissione Europea nel 2020, evento naturalmente finito subito su un binario morto, non prima però che la responsabile cominci una relazione grazie alla quale mediterà sulla natura dell’amore.
Anche questa minima sintesi è sufficiente a qualunque lettore avvertito per riconoscere le assonanze con L’uomo senza qualità di Musil, che è infatti il libro più citato nel romanzo.

Del suo modello La capitale conserva la vastità delle prospettive, l’ironia e la capacità di integrare passaggi saggistici che hanno alimentato dibattiti socio-politici più che letterari. Ma La capitale è un Uomo senza qualità scritto prima, non dopo la fine del suo tempo, e le diagnosi del romanzo traggono non poco del loro carattere suggestivo dal fatto di riferirsi al loro prototipo: se l’impero absburgico si dissolve prima che la musiliana «azione parallela» possa giungere a un qualche esito, si intuisce un approdo fatale anche per il Jubelee Project immaginato da Menasse. Del resto, la burocrazia europea che egli immagina è, nel migliore dei casi ingenua, fatua e autoreferenziale, nel peggiore, feroce, ignorante e cinica. Intorno impazza la commedia umana di personaggi svuotati dei loro sentimenti e dei loro ideali, cui resta tempo solo per qualche coraggioso e inutile atto finale.

Ma Menasse non è un nichilista. La grottesca tragedia alla quale i suoi personaggi danno forma nasce dal contrasto fra la memoria di ciò che sono stati e di quanto hanno conosciuto, e la resa a un presente in cui l’oblio è un criterio di comportamento universale, nonché una regola di sopravvivenza. In ogni caso, la simpatia di Menasse va sempre al passato; e non solo a quello dei suoi personaggi, figli dei campi di sterminio, della resistenza o della povertà e formati da quelle esperienze, ma al passato in sé. Sospeso fra la sua tenace persistenza e la minaccia di soccombere a un tribunale sommario, proprio il passato è, anzi, il vero eroe tragico del romanzo. A ciò che appartiene alla storia e al suo rapporto con il futuro sono dedicati, non a caso, gli aforismi in esergo ai capitoli del romanzo; e intorno a uno di essi, «the past forms the future, without regard to life», si concentrano pressoché tutto il sesto capitolo e l’intreccio sentimentale del libro. Senonché la resistenza del passato e della sua forza plasmatrice si esaurisce in un mondo che non ne ha bisogno. E quando Menasse tocca questo tema la corrosività del suo umorismo diventa formidabile.

Polifonia di epoche e lingue
A un certo punto della storia arrivano alla responsabile del Jubelee Project le controproposte dei Paesi membri dell’unione: c’è materia per un festival degli orrori. Gli italiani propongono di tenere le celebrazioni del Jubelee Project a Roma in memoria dei Trattati, organizzando un gala a Montecitorio e «una festa popolare nel centro di Roma». Così l’allibita responsabile scopre che l’oblio ha inferto il suo colpo di scure al ricordo: «In memoria dei Trattati di Roma – la Commissione non aveva avuto origine con i Trattati di Roma, ma con il Trattato di Parigi… E nessuno… aveva trovato niente da obbiettare? Neanche i Francesi che avrebbero dovuto saperlo meglio di tutti? Nessuno sapeva più niente. Si era capaci di dimenticare quanto di fare chiacchiere».

Contro questo stato dell’arte, La capitale comprende nella sua vasta trama tutto il rimosso dell’Europa: le speranze e i momenti più cupi del suo passato, con l’ossessivo ricordo di Auschwitz che progressivamente diventa l’emblema del romanzo, le diverse storie politiche dei diversi Stati, le dittature, le guerre e, naturalmente, le sue tante lingue. Anche perciò Menasse ha scritto un libro poliglotta in cui si incontrano passi in francese, inglese e italiano ma pure in greco, polacco o ceco (grandi meriti vanno riconosciuti alle traduttrici Marina Pugliano e Valentina Tortelli che hanno superato con bravura le impervie difficoltà linguistiche del romanzo). Con questa imponente polifonia di epoche, storie e linguaggi, con questa commedia tragica sulla vita ai tempi dell’oblio, Menasse ha soprattutto allestito un universo narrativo potente, scagliato a tutta velocità contro ingenui miraggi di una possibile rigenerazione dal nulla.