E’ stato Leonardo Sciascia a cogliere meglio di ogni altro l’essenza dei Promessi Sposi in un’inquietudine che trafigge i lettori più attenti. Un libro cattolico di uno scrittore cattolico, vuole la vulgata, ma un lettore sottile come Hofmannsthal lo vedeva invece «assolutamente laico»: così Sciascia si chiedeva se «l’allergia degli italiani, che a un livello basso e vasto trova ragione nel cattolicesimo dello scrittore, del libro, non trovi invece ragione, appunto, in tale laicismo», e ne deduceva che è un libro «che inquieta la coscienza laica come la coscienza cattolica – o per meglio dire: che equamente la non-coscienza cattolica e la non-coscienza laica allontanano appunto perché inquietante. E davvero non c’è nella nostra letteratura libro più inquietante. E se poi vi aggiungiamo la Storia della Colonna Infame, come bisogna aggiungerla, l’inquietudine può arrivare all’insonnia». Insomma Manzoni «è uno scrittore su cui si verificano sconcertanti paradossi, disastrose incongruenze: molto italiano senza gli italiani; molto cattolico senza i cattolici; molto laico senza i laici».
Lo scritto di Sciascia reca la data del 1973. Da allora, l’inquietudine non è diminuita – ed è una fortuna per il romanzo – ma almeno due punti fermi sono stati apposti alla lettura dei Promessi Sposi per rimediare a una stortura provocata anche ma non esclusivamente dalla tradizione scolastica, nella quale il gran libro è diventato presto canonico. Il primo punto, indicato da Sciascia, riguarda il fatto che il romanzo non si conclude col «sugo di tutta la storia» delle nozze tra Renzo e Lucia ma col sugo della storia che segue, ovvero con la Storia della Colonna Infame, che intona così tragicamente, e cauda, l’intera vicenda: la finta conclusione, coi suoi «guai», s’inarca su altri e maggiori guai. Il secondo punto riguarda le illustrazioni, che Manzoni volle apparentemente per scongiurare edizioni pirata ma che furono in realtà un’impresa di altro e alto tenore, tant’è che lo scrittore vi si dedicò in prima persona non solo indirizzando Gonin, ma impostando il discorso che le vignette dovevano svolgere, creando uno stretto legame col testo al punto di condizionare non si dice la scrittura e le revisioni ma sicuramente l’impaginazione. Salvatore Silvano Nigro di entrambi i punti è stato negli anni un portabandiera, tanto che, per la questione delle immagini, riproponendo per i «Meridiani» il testo manzoniano, si è risolto per un’anastatica; oggi, per dire di come il testo si inarca sulle immagini e di come le immagini siano esse stesse testo, parla propriamente di enjambement, traendo in prestito dalla stilistica poetica il termine che, per la sua esattezza, non ha valore metaforico ma letterale: un appoggiarsi – o un andirivieni – che completa e specifica. E lo fa in La funesta docilità (Sellerio «La memoria», pp. 214, € 15,00), libro sostanzioso, denso e intenso, nel quale l’autore mette al servizio di una avvincente narrazione una lunga esperienza di «manzonista» e una scrittura accesa quanto funzionale. Nella sua prima parte il libro è un giallo, la cui tinta si diffonde nei capitoli della seconda, che partitamente ne dilatano tracce e indicatori. Le due parti sono separate dalla pagina di Sciascia.
Il titolo La funesta docilità arriva dalle parole di Manzoni per Renzo che si abbandona all’opinione della massa quando, durante la carestia, identifica nel vicario di provvisione «la cagion principale della fame»: una «colpa di condiscendenza», dice Nigro, un peccato di acquiescenza, lasciando che l’animo segua l’«affermare appassionato della folla» (benché partecipante al tumulto e alla rivolta, Renzo poi si fermerà e farà da blocco quando si affaccerà la proposta di omicidio): in ciò, il titolo è di una bruciante attualità e mostra un altro tratto dell’inquietudine che il romanzo può insinuare. L’episodio del vicario ha dietro di sé un assassinio del quale Manzoni condivise il clima, quello del ministro delle finanze del Regno Italico, Giuseppe Prina. La lettera nella quale Manzoni parlava di quell’omicidio fu un altro elemento di inquietudine per Sciascia, che ne scrisse in una delle sue Cronachette: la lettera «in quel momento scritta senza inquietudine, crediamo sia poi diventata sostanza di una inquietudine profonda, drammatica e segreta dell’intera sua vita e dell’opera».
Nigro trova ora la presenza del rimorso di Manzoni che Sciascia avrebbe voluto trovare e non trovò, nonostante l’acutezza e la perseveranza della sua indagine. E ciò è possibile proprio grazie alla lettura completa del testo manzoniano, ovvero dell’interdipendenza tra scritto e immagine. Dopo aver ricostruito l’episodio dell’omicidio di Prina attraverso una imperdibile messa in pagina di documenti, testimonianze, confronti, proprio come in un’indagine giudiziaria, Nigro ritorna ancora una volta a osservare le illustrazioni della Quarantana. Sa che Manzoni dalla finestra di casa aveva visto il 20 aprile 1814 la folla tumultuante che, «disertando il comizio del Foscolo, aveva imboccato la prima viuzza, era passata davanti alla Casa degli Omenoni, aveva raggiunto la via delle Case Rotte. I luoghi del martirio del Prina». Manzoni conosceva bene la facciata della Casa degli Omenoni, «vi passava davanti quasi ogni giorno, soprattutto quando si recava in chiesa a San Fedele»: ciò che poteva vedere, Nigro lo dice in poche righe che sono il risultato di un’intuizione formidabile, giacché ciò che Manzoni vedeva si precisa da un confronto variantistico tra Fermo e Lucia, Sposi promessi, Ventisettana, Quarantana. Ma è dalla Quarantana, dove appaiono le illustrazioni, che appare anche il rimorso cercato e non trovato da Sciascia. In una vignetta del cap. XXXIV Renzo è «davanti al portone di don Ferrante, ovvero davanti alla Casa degli Omenoni», che solo tramite il disegno può essere così identificata. Un momento dopo una donna lo dirà ad alta voce «untore», una «“strega” letterariamente imparentata con la Furia della Colonna Infame». Renzo rischierà il linciaggio proprio sui luoghi del Prina, ma si salverà per la protezione dei monatti: «Manzoni, nella Quarantana, salva il Prina in figura, attraverso Renzo. Anzi, con ironia e sofferta autoironia, tra compunzione e risarcimento, lo fa salvare dai burocrati del male e non dalla “gente onesta” (che per il Prina, a suo tempo, nulla aveva fatto)». In un supplemento di indagine ci si potrebbe chiedere se Manzoni salvi qui Renzo o il proprio romanzo: che cosa sarebbero stati i Promessi Sposi senza «un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire (il) primo uomo della nostra storia» (cap. XIV)?
Sono assai più che un complemento al discorso i capitoli della seconda parte, con affondi su Pomilio e Ginzburg che in qualche modo si irraggiano a partire da Sciascia (quel verbo, «monumentare» che appare per Manzoni e nell’Affaire Moro!), così che La funesta docilità è anche un Manzoni visto dalla Sicilia: siciliani sono l’autore, l’editore, il nume tutelare (si affaccia anche Tomasi), alcuni degli illustratori, da Guttuso a Caruso: dalla bella Trinacria che caliga il cielo di Lombardia si vede benissimo. E benissimo vide i Promessi Sposi Guttuso nell’edizione aperta da una discussa introduzione di Moravia. Nigro giudica che le tavole di Guttuso sono «un saggio critico a lente e minute scansioni»: ne risalta una per il cap. XXXI: «Guttuso ha lasciato che la nube nera della morte assorbisse e sfumasse a lutto tutti i colori. Se un frate soccorre i malati, la brutalità nuda di un muscoloso monatto agguanta con violenza un cadavere: profanando, nella posa, una figura di Pietà. Il quadro è fuligginoso. Due necrofori trasportano, disteso su una lettiga, un corpo senza peso con quell’arto cadente, che gli storici dell’arte chiamano “della morte”», dal Trasporto di Meleagro al Marat di David.