In campagna elettorale, e dopo, la nostra destra e il sedicente centro che in realtà guarda a destra sono stati presi da un raptus incontrollato, un amore irresistibile per il nucleare, sostenendo che:
– è la sola soluzione a emissioni zero per compensare completamente la non programmabilità delle fonti rinnovabili;
– il kWh prodotto col nucleare comporta emissioni di CO2 inferiori a quelle prodotte dalle rinnovabili, quelle dovute alla produzione dei componenti e al loro smaltimento;
– i problemi di costo e del tempo necessario per la loro costruzione sono superati con i reattori di III generazione; per costruirli bastano 7 anni, quindi in tempo per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030;
– il problema delle scorie è stato risolto;
– ci sono i reattori di IV generazione dietro l’angolo, già pronti per essere installati entro un paio d’anni al massimo, piccoli, economici, sicuri.

Ebbene, tutto falso. Andiamo per punti. Perché la non programmabilità delle fonti rinnovabili si può compensare con diversi tipi di accumulo, ampiamente sperimentati e intrinsecamente più sicuri ed economici di un reattore nucleare. Non è vero che il nucleare sia indispensabile per lo sviluppo delle fonti rinnovabili; poi, secondo l’Agenzia tedesca per l’ambiente, l’energia nucleare rilascia, sull’intero ciclo di vita, 3,5 volte più CO2 per chilowattora rispetto al solare fotovoltaico e 13 volte in più rispetto all’energia eolica. Altri, come la World Nuclear Association, mettono invece nucleare e rinnovabili sullo stesso piano: le emissioni sono irrilevanti in entrambi i casi.

E ancora, come dimenticare che l’ultimo impianto entrato in servizio in Finlandia nel gennaio 2022 è costato 11 miliardi di euro (circa 5 volte di più di parchi eolici terrestri per pari potenza in Italia) e ha richiesto 17 anni di lavori dall’inizio della costruzione. Il terzo reattore dell’impianto di Flamanville, in Normandia, non è ancora completo dopo oltre 14 anni dall’inizio dei lavori, con un budget che si è quasi quadruplicato nel corso degli anni (salito da 3,3 a 12,4 miliardi €).

Il reattore in costruzione a Hinkley Point nel Regno Unito – costo iniziale stimato di 18 miliardi di sterline, già lievitato a 26 – è stato finanziato grazie all’impegno del Governo (e quindi dei suoi contribuenti) a comprare la produzione elettrica per 35 anni a un prezzo più del doppio di quello prodotto con altre fonti alla firma dell’accordo nel 2016. L’elettrictà ottenuta col nucleare non è certo la più economica. Secondo i dati di IEA e NEA (le agenzie per l’energia e per l’energia nucleare dell’OCSE) la fonte più economica è generalmente il fotovoltaico.

La redazione consiglia:
La crisi climatica sui media italiani non ha colpevoli

È poi vero che un reattore nucleare si può costruire in meno di 7 anni, ma va detto anche dove. Mentre abbiamo visto quali siano i tempi in Europa, e analogamente negli Usa (anzi peggio: 42,8 anni) e in Russia (tempo medio 17,9 anni), se andiamo in paesi dove non c’è alcun controllo serio dei criteri di sicurezza dei lavoratori e dell’impianto e/o dove il controllo democratico è debole o inesistente, allora i tempi si contraggono. E così troviamo che in Pakistan il tempo medio è di soli 5,6 anni, di 6 in Cina, di 7 in Bielorussia, di 8,2 negli Emirati Arabi.

Unica eccezione è la Corea del Sud, che è riuscita a costruire i suoi reattori, in media, in soli 6,4 anni, ma anche in questo caso entrano fattori culturali e socio-politici. In conclusione, l’affermazione dei 7 anni si può far diventare vera anche per l’Italia, ma solo in caso di deriva antidemocratica. Profezia che si auto-avvera?

Quanto alla dismissione, la dismissione di impianti di generazione elettrica nucleare è resa complessa e onerosa dalla gestione di materiale radioattivo, combustibile esausto e componenti irraggiati durante il funzionamento. In Italia lo smaltimento delle quattro centrali, tre piccolissime, in servizio al momento del referendum del 1987 sta risultando lento e oneroso: 20 miliardi, e a 35 anni dal referendum non abbiamo ancora finito.

Inoltre, ad oggi l’Italia non ha individuato un sito di deposito delle scorie. Il 15 marzo 2022 Sogin, la società pubblica che si occupa della dismissione degli impianti e della gestione dei rifiuti radioattivi, ha consegnato la mappa aggiornata dei luoghi idonei a ospitare il deposito al MiTE, che dovrà valutarla e approvarla. Una volta pubblicata si apriranno le candidature e inizierà la fase di negoziazione per trovare l’indirizzo finale del deposito nazionale, che difficilmente si concluderà in tempi brevi. Nessuno lo vuole, naturalmente.

Infine quello dell’indipendenza energetica con i reattori nucleari è un plateale falso. Come potremmo mai essere indipendenti quando non abbiamo alcuna miniera di uranio e quando nel 2021 il 45% di tutto l’uranio estratto nel mondo proveniva dalle miniere del Kazakistan, seguito dal 12% estratto in Namibia e il 10% in Canada? E non solo. Avere uranio naturale non serve a niente. Per usarlo nei reattori occorre arricchirlo. Ebbene, nel 2020 era la Russia ad avere il 46% della capacità mondiale di arricchimento, seguita dall’Europa (Gran Bretagna inclusa) con il 34%.

Non può stupire, quindi, venire a sapere che la Russia, attraverso l’agenzia atomica nazionale Rosatom e le sue sussidiarie, fornisce combustibile nucleare arricchito a Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio, Olanda, Svezia e Svizzera, probabilmente ancora ora, a guerra in Ucraina in corso. Insomma, dato che i paesi Europei che hanno impianti di arricchimento (Francia, Germania, Olanda e UK) li usano per rifornire le proprie centrali e non gli basta, anche noi dovremmo comprare l’uranio arricchito dalla Russia. Dalla padella nella brace. E non parliamo della sicurezza, che è un capitolo a parte: chiedere a chi abita vicino a Zaporizhzhia come si sente.