Parigi, 9 novembre 2018. James Barnor (Accra, Ghana 1929) trascorre il suo tempo tra Londra e Parigi, in residenza alla Cité Internationale des Arts, dove insieme alla gallerista Clémentine de la Féronnière lavora al riordino e valorizzazione del suo archivio fotografico. Proprio a Paris Photo 2018, nello stand della galleria una delle sue foto che sanno brillantemente coniugare moda, costume e vita quotidiana (la modella è un’assistente del negozio Sik-Hagemeyer, Accra 1971) è stata selezionata da JP Morgan nella sezione People. Un tuffo nei colori più autentici di un’epoca (ancora in parte definita dal bianco e nero), che per Barnor coincide con quella passione che l’ha spinto fuori dal continente africano.

Oggi, novantenne con uno straordinario spirito venato di humor, ripercorre i momenti magici della sua professione tra Ghana e Inghilterra sfogliando James Barnor: Ever Young, prima monografia dedicata al suo lavoro (éditions Clémentine de la Féronnière Editione/ Autograph ABP, 2015). Il nome è quello dello studio che aveva aperto negli anni ’50 nel suo quartiere (Jamestown) ad Accra; appare anche in una sua foto degli anni ‘50 con l’insegna dipinta a mano, esposta in occasione della I edizione del festival Nuku Photo Festival Ghana (2018).

Nella copertina del libro c’è un bel ritratto di una giovane dallo sguardo-calamita e l’entusiasmo di chi sa che sta prendendo parte a cambiamenti epocali. Eva era figlia di J.P. Dodoo, cugino-fotografo che è stato una figura chiave per James Barnor. In famiglia – una grande famiglia il cui sostenimento dipendeva da una piantagione di cacao – c’erano parecchi fotografi tra parenti stretti e acquisiti. Barnor è stato anche maestro elementare e flautista nella band della scuola, prima di dedicarsi alla fotografia anche come fotogiornalista per il Daily Graphic (quotidiano in lingua inglese pubblicato in Ghana dal Daily Mirror Group) e per la rivista Drum. In Africa – prima e dopo l’indipendenza del ’57 – e poi a Londra, sono tanti i ritratti di gente comune, modelle incontrate sull’autobus, così come di famosi boxer (c’è anche Mohamed Ali con le sue fan a Londra nel ’66), reginette del ballo e politici in prima linea, come l’amico J. B. Danqua e Kwame Nkrumah, primo presidente di quello che un tempo si chiamava Costa d’oro.

Tra le tante storie, quella del servizio fotografico realizzato a Londra nel ’67 per Drum, dedicato a Mike Eghan che lavorava per il dipartimento africano della BBC. “Quando vidi Mike Eghan dissi che eravamo troppo grandi per stare in una stanza. Uscimmo, lo portai a Trafalgar square. Salire fino alla statua del leone fu una gran fatica e poi un poliziotto ci redarguì, perché non era permesso arrampicarsi lassù. Riuscii comunque a fare quella serie di scatti. Da lì prendemmo il bus per Piccadilly Circus e continuai a fotografare. Ora quella foto è nella British Collection della Tate!”, racconta Barnor. Pazienza e passione sono due elementi fondamentali del suo lavoro: “Quando la gente non aveva soldi per pagare le luci, facevo ritratti all’aria aperta.”

In Ghana tornerà negli anni ’70, dopo la frequentazione in Inghilterra del fotografo Dennis F. Kemp e l’esperienza di tecnico del colore per l’Agfa-Gevaert, che andava espandendo il suo mercato in Africa. Per altri vent’anni, fino al ’93, quando è tornato in Europa, James Barnor ha continuato a fotografare con la stessa curiosità. Al 2007 risale la sua prima mostra Mr Barnor’s Independence Diaries ai Black Cultural Archives, di Londra, seguita da altre, tra cui la collettiva Another London: International Photographers Capture London Life 1930–1980 alla Tate Britain (2012) e Daniele Tamagni and James Barnor, October gallery, Londra (2016).

Quando ha deciso di diventare fotografo?

Non saprei dire come e quando, perché nella stessa casa in cui sono cresciuto c’erano due zii. William Ankrah era il fratello più grande di mia madre, conosciuto per i suoi ritratti. Poi c’erano almeno altri tre o quattro fotografi che vedevo spesso. Mio zio viaggiava molto ed era mio fratello maggiore ad accompagnarlo, perché bisognava portare il fondale, l’apparecchio fotografico, l’attrezzatura e il treppiedi. Anche se non ho imparato da lui, perché ero ancora molto giovane quando andò in pensione, diede a me tutto il suo materiale. Feci un po’ di apprendistato con mio cugino J.P. Dodoo che non mi incoraggiò affatto ad usare la fotocamera di medio formato, lui infatti usava il banco ottico con i negativi di vetro che ritoccavamo sempre. All’epoca non esisteva photoshop, facevamo tutto con la matita. Trascorrevamo tra i 30 e i 45 minuti solo su un volto per rendere la persona più giovane. Ritoccavamo i negativi e poi li stampavamo. Frequentai anche un altro cugino più giovane, Julius Aikins, fotografo per il West African Photographic Service. Quando fai il fotoreporter sei ambizioso, hai voglia di andare avanti, crescere, mentre se sei un fotografo di studio te ne stai nel tuo spazio. Attraverso di lui ho conosciuto i libri di fotografia. Julius Aikins mi ha insegnato anche a guardare e confrontarmi con il lavoro di altri autori. Comprava per posta riviste come Life e libri fotografici e me li prestava. Mi piaceva guardarli.

Cosa ti interessava cogliere di una persona quando la ritraevi?

A quel tempo non c’era sofisticazione, si trattava di esprimere la propria idea di moda, in base alla persona che ti stava di fronte, oppure cogliere psicologicamente certi aspetti del carattere e far sì che uscissero fuori. Prima di fare il fotografo ero stato insegnante e anche musicista. Avevo appena finito la scuola secondaria quando iniziai ad insegnare a ragazzini tra i 6 e i 12 anni in una scuola elementare. Un maestro mi diede la sua macchina fotografica, un modello Brownie e cominciai a fare ritratti della gente. E’ stata l’esperienza la prima lezione.

Parallelamente al lavoro di studio sei stato fotogiornalista…

Prima di tutto è stata importante l’esperienza del lavoro di studio con lo sviluppo e la stampa in camera oscura che per me era come un luogo di preghiera, il mio incontro con Dio. In verità, all’inizio avrei voluto fare il “police photographer”. A scuola ero considerato un alunno disciplinato, molto rigoroso. Di quel lavoro mi piaceva l’aspetto di documentazione scientifica e d’investigazione di un incidente o di un crimine. Passai l’esame, ma non cominciai a lavorare in polizia perché c’era la lista d’attesa. Nel frattempo mio zio mi diede la sua attrezzatura e cominciai a fotografare in casa, soprattutto gli amici. E’ stato grazie a J.P. Dodoo che ho avuto il lavoro di fotogiornalista per il Daily Graphic. Il direttore del giornale venne in Ghana insieme ad un vecchio fotografo e si recò nello studio di J.P. Dodoo, che era il fotografo più conosciuto di Accra. Lui disse che non faceva quel tipo di lavoro, ma mandò suo figlio a cercarmi. Proprio lui, l’uomo che non mi incoraggiò mai a fare quel tipo di fotografia, mandò suo figlio con il direttore a casa mia! Ricordo che non mi aspettavo quella visita e non avevo alcun portfolio da mostrare, solo una busta con delle foto che erano doppie. C’era un po’ di tutto. Il direttore disse “non è proprio quello che cercavo, ma ti formeremo. Vieni domani”. Mi chiedo ancora cosa potesse averlo impressionato positivamente! La stampa, che fossi in grado di stampare o, forse, che avevo il mio apparecchio fotografico. Fui il primo fotogiornalista della testata il cui primo numero uscì il 2 ottobre 1950.

Per quanto tempo hai collaborato con il Daily Graphic?

Non sono mai stato in un posto troppo a lungo! (ride) È un peccato, perché si finisce con il saper fare tutto e niente. Ma io avevo il mio studio con i miei clienti ed ero solo. Mi accontentavo con il mio business ed ero abituato al lavoro solitario. Qualche volta ho provato a lavorare con gli altri, ma poi mi sentivo frustrato e andavo via. Dalla redazione mi hanno sempre chiamato chiedendomi di tornare. Non ho mai lasciato del tutto né l’uno, né l’altro lavoro. Certe volte è difficile lavorare insieme ai giornalisti, perché pensano di essere meglio del fotografo e vogliono avere il potere nella scelta delle immagini da pubblicare.