Se qualcuno di noi, sociologo, storico orale, giornalista, avesse nel 1969, in pieno autunno caldo, intervistato Alfonso Natella noi avremmo oggi in archivio una delle tantissime testimonianze conservate come un bene prezioso ma che pochi leggono. Consegnata, quella testimonianza, a uno scrittore, a un poeta come Nanni Balestrini, è diventata un simbolo inestinguibile dei valori del ’68 operaio e non solo.

La potenza del linguaggio letterario si esprime in Vogliamo tutto con quella valenza universale che riesce a condensare storia e memoria, utopia e iperrealismo, calcolo e speranza.

Sì, calcolo anche. Perché una lotta operaia dove sono in gioco interessi grossi, dove ciascuno si gioca il posto di lavoro, dove, se finisce bene, si cambia la storia d’Italia e il rapporto tra istituzioni, da dove può nascere addirittura un nuovo modo di produrre l’automobile – una cosa così né s’improvvisa né può riuscire senza che una serie complessa d’intelligenze, di conoscenze, una massa pesante d’esperienze vengano messe assieme, trasformate in sentire collettivo, codificate in parole d’ordine… e si decida di cominciare.

Di quegli anni, di quelle lotte, noi dovremmo proprio ripensare l’idea di spontaneità e dovremmo combattere lo stereotipo dell’operaio meridionale neoassunto che si ribella «perché è incazzato».

Vogliamo tutto è la voce di un sapere antico che non ha difficoltà a decodificare i meccanismi delle moderne tecno-strutture. Altro che mera incazzatura, da lì sono nate le azioni e le riflessioni che hanno trasformato la medicina del lavoro, il modo d’insegnare, di fare informazione e anche, forse, il modo di scrivere.

Balestrini ha avuto il grande merito di capire che se c’era una continuità nell’esperienza di avanguardia letteraria, quella che lo aveva visto tra gli iniziatori del Gruppo 63, la si poteva trovare solo nel rapporto coi movimenti del ‘68/’69.

Aveva capito che fare cultura era un’altra cosa dopo il ’68. E qui si potrebbe riaprire il capitolo del rapporto tra intelletti e movimenti sociali con intenzioni rivoluzionarie.

Un tema fin troppe volte esplorato ma che, riconsiderato alla luce dell’esperienza umana di Nanni, può presentare ancora qualche spunto stimolante. In che senso?

A mio avviso per capirlo occorre prendere in mano dopo Vogliamo tutto il lavoro che Balestrini porta a termine assieme a Primo Moroni, L’orda d’oro. Lo scrivono in una situazione in cui noi ci siamo trovati l’anno scorso: l’anniversario del ’68.

Come in Vogliamo tutto Balestrini s’era scelto quale interlocutore una persona che meglio poteva rappresentare l’autunno operaio, così nel 1988 si sceglie come interlocutore la persona che meglio poteva interpretare lo spirito del movimento del 1977: Primo Moroni.

Il libro va a ruba, è introvabile, lo prende in mano Sergio Bianchi, lo arricchisce di contributi e lo stampa con Feltrinelli nel 1997, una terza edizione uscirà nel 2003 e l’anno scorso, 2018, lo abbiamo ancora riletto e usato nelle commemorazioni del cinquantenario. Non è usuale che un libro di storia dopo 30 anni sia ancora rivelatore.

Ecco, bastano queste due opere per consentirci di fare il paragone con un altro che ha caratterizzato la sua vita di scrittore, saggista, poeta, sulla base di un rapporto coi movimenti: Franco Fortini.

Due approcci più diversi al rapporto tra cultura, scrittura e movimenti è difficile immaginarli.

Franco ha interpretato il suo ruolo come quello di un profeta, di un censore, come quello di una guida che continua a richiamare al retto cammino una moltitudine che procede un po’ disordinata. La sua voce quindi si leva sopra il movimento, si deve sentire forte. Aspro dev’essere il suo tono che richiama i confusionari al rigore, alla coerenza e i sovraeccitati alla misura.

La voce di Nanni invece non si sente, si confonde con quelle della moltitudine, una voce che non ostenta saggezza ma contiene tanto sapere tacito. Non c’è il minimo protagonismo nei suoi rapporti con il movimento mentre, credo – a partire da me stesso – di protagonismo e di narcisismo è infestata la dimora di quelli che vengono definiti «intellettuali».

E magari alcuni ci cascano e pensano davvero di esserlo, mentre sono invece, ahimé, inutili rompiscatole.

Franco Fortini e Nanni Balestrini si sono mossi su due dimensioni diverse, hanno interpretato due ruoli ben distinti ma ambedue indispensabili: il ruolo del battistrada (oggi diremmo della leadership) e quello che Primo Moroni definiva «il ruolo della struttura di servizio».