La pietra e la tenda: ipotesi di inizio e fine (o viceversa) di un percorso in cui la parola (in qualsiasi lingua) è elemento di costruzione – quanto di decostruzione – della mappatura dell’io nel riflesso dell’altro.
L’incipit è apparentemente enigmatico, ma non tarda a svelare l’intento delle interessantissime artiste – fra loro, Rosa Barba, Sophie Calle, Shilpa Gupta, Mona Hatoum, Jenny Holzer, Emily Jacir, Bouchra Khalili, Shirin Neshat, Maria Papadimitriou, Chiharu Shiota, Fiona Tan – appartenenti a generazioni e geografie diverse (dalla Palestina al Giappone, fino a Marocco e all’India) e delle curatrici Claudia Gioia e Beatrice Merz che le hanno invitate a confrontarsi nella collettiva Push the limits alla Fondazione Merz di Torino (fino al 31 gennaio 2021).

UN MOMENTO significativo che segna la riapertura della fondazione dopo la chiusura causata dall’emergenza sanitaria e, parallelamente, la celebrazione dei suoi 15 anni di attività. La mostra in sé si pone come territorio condiviso in cui azione e riflessione si rincorrono al ritmo delle parole – ispirate e ispiranti – ma non sempre comprensibili e di immediata lettura, in equilibro precario tra ordine e disordine, noto e ignoto, paura e conforto, passato e futuro. Evidentemente anche in questo approccio si richiede un certo sforzo da parte dell’osservatore. A cominciare dal tentativo di leggere in Sea Sick Passenger, il lungo testo con le lettere che Rosa Barba ha ritagliato nel feltro del tappeto «fluttuante» (così lo definisce la curatrice Claudia Gioia) di matrice cinematica, in cui la prospettiva dall’alto verso il basso (non si cammina sul tappeto, lo si aggira) trasforma il lettore in editore.
Nell’impossibilità di una fruizione fluida e completa si è portati a isolare frammenti di scrittura che, estrapolati dal contesto, assumono nuovi significati. Ecco emergere, allora, frasi come «she evolved no routine from herself» o manciate di parole – «mean», «forgotten», «fortress», «reflecting»… – che possono dialogare con il brano sonoro Brendan’s Isle di Fiona Tan. Il poema, scritto in olandese antico, introduce al mitico viaggio del monaco benedettino irlandese Brendan vissuto nel VI secolo (le sue imprese erano note anche a Cristoforo Colombo) alla ricerca dell’isola fantastica tra le superficie increspate dell’oceano Atlantico. Un’immersione nell’immaginifico e nel sublime che ciascuno può condurre sondando i propri orizzonti mentali, tanto più quando si trovano (come in questo caso) davanti al nulla del muro bianco. Di lato, campeggia la scritta «Pensa a me pensando a te»: è l’opera che Barbara Kruger ha realizzato ad hoc per la mostra, stampandola su vinile.

 

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UN’ANALOGA RIFLESSIONE sulla possibilità di una reciprocità vissuta come addizione e non sottrazione della propria identità, viene sviluppata visualmente in Diamond of Otherness-Kaleidoscope of the motions of the soul di Maria Papadimitriou, ispirata alle parole di Arthur Rimbaud Je est un autre (io è un altro), a cui fa eco la frase di otto metri dell’installazione luminosa a led WheredoIendandyoubegin di Shilpa Gupta («dove io finisco e tu inizi»), collocata all’esterno dell’edificio.
Usa i led anche Jenny Holzer per ricomporre le centinaia di migliaia di parole dei rapporti raccolti nel 2004 dagli investigatori dell’Army’s Criminal Investigation Command (Cid). Sworn Statement ha una fortissima valenza di denuncia: mette in luce l’impunità dei militari americani accusati di abusi sui detenuti durante la guerra in Afghanistan.

LA CRITICA AL SISTEMA globalizzato lo troviamo anche in Amazon Spirits, di Pamela Rosenkranz che definisce lo spazio fisico di una straniante foresta minacciata nei suoi equilibri eco-ambientali dall’avanzare del progresso. Nell’ambiente hi-tech con mobili d’ufficio e scatole di cartone attraversato dalla luce verde-azzurra e i cinguettii di uccelli, si creano connessioni che giocano sull’ambivalenza tra il nome della foresta (Amazzonia) e quella della nota azienda di commercio elettronico.
Push the limits è un percorso che si addentra in una dimensione che può essere ambigua e minacciosa, ma come ci ricorda la piccola testa dorata di Marisa Merz (l’opera non ha titolo e non è datata) adagiata sul fondo della bottiglia di vetro trasparente – senza tappo – lo spettatore viene indirizzato verso la liberazione delle emozioni più recondite.
In Where are we going? l’apparente leggerezza della «tessitura» chiara si rivela, in realtà, una ragnatela d’intrecci in cui Chiharu Shiota intrappola le barche anche nel loro valore simbolico legato al viaggio, alla migrazione, alla salvezza, così come Mona Hatoum nell’installazione Impenetrable definisce uno spazio impenetrabile di filo che sembra spinato in cui proietta le proprie vicende autobiografiche.

L’AZIONE RICHIEDE sempre consapevolezza: anche Sophie Calle invita l’osservatore a interagire con l’opera, stimolando un aspetto voyeuristico in cui mette a nudo il proprio mondo interiore di donna e di artista. La serie fotografica Parce que (Perché) si svela sotto il telo di panno su cui è ricamata una frase della stessa Calle, una sorta di diario privato con le sue pagine che restituiscono intimità. Solo nel momento in cui il panno viene sollevato, come gli antichi dagherrotipi da preservare dalle fonti di luce, emerge il contenuto fotografico.

TRA INCIAMPI apparentemente casuali – una bambola abbandonata, il monumento funebre di una donna morta il giorno delle nozze – la vita e la morte si prendono a braccetto, arrivando a contemplare la soluzione più estrema: il suicidio. L’argomento è centrale nel film Sarah di Shirin Neshat (parte della trilogia Dreamers) in cui la protagonista sceglie il suicidio, affrontato con il sorriso e gli occhi aperti, per neutralizzare un’esperienza traumatica. Chissà se la rimozione è effettivamente la risoluzione idonea. Forse, come sostiene Emily Jacir in Pietrapertosa, incidendo in italiano (e in arabo) sulla pietra di Gorgoglione grigio cenere la frase «sei venuto tra la nostra gente e la tua vita è sicura», la forza nasce dall’accoglienza, dall’incontro.
A questo punto non rimane altro che attraversare, ancora una volta, il drappo pesante e colorato dell’installazione The horse trotted a little bit further | Il cavallo trotterellò un po’ più in là di Katharina Grosse, che accompagna da una parte e l’altra del confine esterno/interno, lì dove il gesto è pittorico e performativo.