Nei media israeliani della storia di Udi Segal non c’è traccia. La si scova in qualche blog e in un video dell’artista israeliano Moriel Rothman. Udi ha 19 anni, vive nel kibbutz Tuval e ieri si è presentato di fronte alla corte di Haifa per rifiutare ufficialmente il servizio militare. Udi finirà nel carcere Prison Six.

«Lunedì andrò in prigione per aver rifiutato di servire nell’esercito – spiega nel video di Rothman – Il rifiuto è una forma di lotta contro l’occupazione. La scelta non è stata accolta bene, la gente ha smesso di parlarmi. Il governo e i media cercano di mettere sotto silenzio ogni voce critica. Per questo è importante non solo rifiutare di vestire la divisa ma lottare attivamente contro l’occupazione».

«Se ho paura? Certo, non ho mai provato un’esperienza di deprivazione della libertà. Ma non voglio partecipare al massacro né voglio che lo si commetta nel mio nome». Udi è uno dei 130 firmatari della lettera inviata ad aprile al premier Netanyahu: un gruppo di giovani studenti, prossimi all’arruolamento nell’esercito, ha detto pubblicamente no alla divisa. All’epoca avevamo parlato con alcuni di loro: «Le armi sono parte dell’identità di ogni israeliano – ci aveva spiegato Gilad, 16 anni – Io non accetto tale narrativa. Per questo ho firmato: sono contrario all’occupazione militare dei Territori Palestinesi e alla mentalità maschilista che prevale nell’esercito e che viene traslata nella società civile. Pagherò per questo rifiuto: la mia scuola ha minacciato di espellermi per la ‘cattiva’ pubblicità che ho arrecato all’istituto. Da noi lo Stato finanzia le scuole in proporzione al numero di studenti che si arruolano».

La conseguenza è il carcere: 42 giorni, reiterabili a tempo indeterminato. E una volta fuori, l’obiettore di coscienza deve vedersela con l’esclusione sociale: ad ogni colloquio di lavoro una delle prime domande poste è in quale unità si è servito, mentre nell’assegnazione dei benefici del welfare la priorità va agli ex militari.

E se c’è chi accetta di finire in prigione per essere uscito da una società militarizzata, c’è chi viene ammanettato per aver manifestato contro la guerra. Sabato sera a Tel Aviv, erano 5mila gli israeliani in piazza Rabin a chiedere la fine dell’operazione contro Gaza. La polizia ha tentato di impedire la manifestazione, chiudendo le strade e bloccando l’accesso ai bus provenienti da Gerusalemme e Haifa. Almeno quattro gli arrestati, parte di una più ampia campagna di repressione di ogni voce critica. Perché, seppure la partecipazione sia stata elevatissima, i pacifisti israeliani restano una goccia nel mare, aggrediti fisicamente da gruppi fascisti, arrestati dalla polizia, tacciati di tradimento da media e politici.

E a volte anche soggetti a critiche interne al movimento anti-sionista: «La manifestazione di Tel Aviv è l’inizio della guarigione della nostra società? – si chiede in un editoriale Michel Warschawski, fondatore del movimento comunista israeliano Matzpen – Presto per dirlo. Si è trattato del primo evento di massa contro la guerra dall’inizio dell’offensiva. Ma dei 5mila presenti c’erano molti uomini e donne vicini alle politiche governative ma che oggi temono che l’immagine di democrazia e liberalismo israeliani siano a rischio. Sono preoccupati dal fatto che i metodi usati finora nei confronti del popolo palestinese, vengano rivolti alle opposizioni interne. Ma c’è un elemento positivo: quelle persone sabato sera hanno detto al governo che non hanno paura».

Una minoranza che si scontra con una società compatta. Oggi, a 20 giorni dal lancio di Margine Protettivo, con un bilancio di 1.050 palestinesi uccisi e la Striscia ridotta ad un cumulo di macerie, il consenso per primo ministro e esercito è alle stelle. Secondo l’ultimo sondaggio, pubblicato due giorni fa dal Jerusalem Post, oltre l’86% non vuole il cessate il fuoco. Se Bibi cede ad una tregua, farà infuriare un’intera nazione. La stessa che nel web si scatena in campagne per l’esercito, che organizza raccolte fondi per i soldati, che per le strade delle città miste si scaglia contro i residenti palestinesi, in attacchi che hanno il sapore di pogrom. Udi Segal è una goccia nel mare.