Che il negazionismo costituisca una sfida non solo per gli storici ma, più in generale, per le società democratiche, è oramai un riscontro tanto diffuso quanto ancora poco compreso. Basti pensare al revanscismo fascistoide che si sta accompagnando all’evoluzione dei populismi europei, partendo dall’Ungheria, passando per la Grecia per arrivare alla Francia. La funzionalità del discorso che nega, o ribalta, il passato, stravolgendone non solo i significati condivisi ma lo stesso tracciato fattuale, ovvero il succedersi degli eventi, si incontra con fenomeni sociali e culturali nel medesimo tempo complessi e stratificati. La crisi economica senz’altro pesa molto nello smarrimento collettivo che, sul piano culturale, si trasforma in un vero e proprio sbandamento cognitivo.

Produzione di identità

Dinanzi ad un futuro opaco e ad un presente incerto il giudizio su quello che è stato si trasforma in una variabile dipendente dai sentimenti del momento e, soprattutto, dai risentimenti di lungo periodo. Depurare i fascismi dei loro aspetti più brutali, a partire dall’agire sterminazionista con il quale hanno causato e condotto una guerra catastrofica, permette non solo di riabilitarne i trascorsi, nobilitandoli agli occhi di collettività smarrite, ma anche di rilanciarne la natura di progetti politici e sociali basati sull’anestetizzazione di ogni residua coscienza critica. Il problema, allora come oggi, non è mai la persistenza in sé del fascismo come ideologia della prevaricazione razzista ma il darsi di una costellazione di fattori che rendono plausibile il ricorso ad esso come strumento di soluzione non negoziata dei conflitti.

Dopo di che lo spazio del negazionismo è purtroppo oggi più che mai dilatato. Più che leggerlo come il mero ritorno di qualcosa che sussiste carsicamente è bene soffermarsi sui luoghi in cui esso si dà come veicolo di costruzione di identità. Non importa quanto fittizie e manipolate, trattandosi di un fenomeno che per definizione sfida qualsivoglia ragionevolezza, poiché dotato di una razionalità ferrea, intrinseca, autoreferenziale, che proprio nel prescindere deliberatamente dai dati di fatto ha costruito le sue fortune. Siamo infatti in presenza di una dimensione al contempo controfattuale e mitografica. E non è un caso se entrambi i caratteri vengano attribuiti, dai negazionisti, ai loro confutatori. Poiché i primi rivendicano uno spazio radicale, quello della riscrittura immaginifica della storia come prodotto della libertà dei moderni, che i secondi, invece, rifiutano, consapevoli che facendo altrimenti si sfalderebbe lo stesso linguaggio con il quale leggiamo il presente. Quando i negazionisti parlano, blaterando, di «libertà di coscienza», così come di «libera espressione», non stanno solo patrocinando i loro deliri ma incrociano un comune sentire, quello che nell’età del liberismo eleva la nozione astratta di «libertà», parola chiave nel lessico neoconservatore, a totem della contemporaneità. Si tratta, in questo caso, dell’invito ossessivo a rompere gli argini della coscienza collettiva, intesa come una gabbia, sostituendovi un atteggiamento di scetticismo esasperato e alternandovi il convincimento che la «verità» riposi in un discorso che rescinde la consapevolezza critica.

Il negazionismo, oggi, si presenta come un’affabulazione isterica sul cosiddetto contropotere che deriverebbe dal mettere alla berlina il sapere condiviso, tanto più se prodotto di una lunga ricerca. I nessi con il complottismo sono immediati, se non altro perché antisemitismo e fascismi da sempre svolgono una narrazione a sé stante del tempo presente, alimentandola di rimandi all’occultamento di coalizioni di forze, all’azione clandestina di soggetti parassitari, in una sola espressione alla lettura dei conflitti come il prodotto di un campo di volontà celate. Non a caso, allora, il convegno della Società per lo studio della storia contemporanea si interroga sul rapporto tra negazionismo e Web (appuntamento oggi alle ore 14 all’Università Roma Tre, Sala del Consiglio, Via Ostiense, 234. Il programma completo dell’incontro è consultabile nel sito Internet dell’università Roma 3). In quanto sempre di più il primo trova il suo habitat naturale nel secondo. Questo riscontro non legittima le interpretazioni che vorrebbero il negazionismo come oramai orfano di padrini politici. Invita semmai a pensare ai luoghi della diffusione, a tratti virale, e alla funzione che oggi raccoglie, soddisfacendo una domanda diffusa di bisogno di significato, quand’anche alterato ed avariato.

Nel Web il rapporto tra autorità e sapere subisce un’immediata ridefinizione. Se tradizionalmente l’acquisizione di competenze e cognizioni è legata alla trasmissione intergenerazionale, nella Rete questa gerarchia verticale e anagrafica si frantuma, sostituita da un’orizzontalità ingenuamente intesa come «democrazia della conoscenza». Si tratta di un equivoco diffuso e, come tale, destinato a ripetersi. Fa parte di quell’idea di libertà intesa come spazio assoluto della licenza, nel nome di un falso anti-autoritarismo che, paradossalmente, intercetta i tardi cascami di suggestioni della stagione che fu dei movimenti.

La mancanza di codici di interpretazione, l’apparente equivalenza tra versioni antitetiche, l’insofferenza per qualsiasi filtro interpretativo, la saturazione di sollecitazioni, l’invito a porre l’immagine (più che l’immaginazione) e l’evento (inteso non come parte di una successione bensì come episodio a sé, unico e irripetibile) al centro del discorso sul sapere, ma anche il narcisismo di massa, il ricorso alla scrittura come forma di autobiografia di massa, l’intolleranza nei confronti della complessità, l’ipertrofia del particolare, sono tra i fattori che fanno da cornice all’espansione delle opportunità per il discorso negazionista.

Il declino dell’«uomo pubblico»

Non a caso tutti questi elementi si incrociano con il declino dell’uomo pubblico ma anche e soprattutto con la trasformazione della politica, ossia la sua contrazione da sfera pubblica a campo di incursione dei populismi e delle tecnocrazie. La sfida del negazionismo, tanto più sul Web, non sta quindi in una vocazione storiografica che in alcun modo ha avuto, costituendone semmai il ribaltamento. Piuttosto, collocandosi al crocevia di malumori, angosce, risentimenti e rivalse, dà fiato a ciò che subentra al revisionismo conservatore degli ultimi tre decenni, ossia una sorta di «reversionismo» laddove ognuno è invitato a scegliersi, nel nome di un anticonformismo di facciata, in realtà subalterno al rifiuto della storia e all’ossessione per un presente eterno e immutabile, una versione a suo piacimento di ciò che è stato. Nel nome, ancora una volta, di una schiavitù mentale e culturale che si presenta come atto di «liberazione» di idee e istinti. Da eterno fascismo, qual è il nocciolo duro, antisemita, che porta con sé.