Europa

Il ricatto di Ankara e i timori balcanici di Angela Merkel

Il ricatto di Ankara e i timori balcanici di Angela Merkel

Crisi dei profughi «Adesso il mondo dovrà rispettarci», manda a dire Recep Tayyip Erdogan forte del successo elettorale ottenuto domenica dal suo Akp. Un messaggio rivolto a tutti, ma in modo particolare ai […]

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 4 novembre 2015

«Adesso il mondo dovrà rispettarci», manda a dire Recep Tayyip Erdogan forte del successo elettorale ottenuto domenica dal suo Akp. Un messaggio rivolto a tutti, ma in modo particolare ai leader europei che di fronte alle violazioni di diritti umani, ai giornalisti incarcerati e alla repressione dei curdi fino a oggi hanno preferito prendere tempo e non rispondere alle richieste avanzate dalla Turchia di accelerare il processo di integrazione all’Unione europea, ma soprattutto di vedersi riconosciuto come un alleato sicuro nel fronteggiare le due cose che oggi l’Europa teme forse più di tutto: i terroristi dell’Isis e una nuova ondata di profughi diretti verso le sue frontiere. Non a caso mentre la Casa Bianca non nasconde la preoccupazione per il successo ottenuto dal Sultano, da Bruxelles arrivano parole molto più caute. Come quelle usate ieri dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk che in una lettera inviata al premier turco Ahmet Davutoglu per congratularsi del risultato ottenuto, ha si ricordato come le elezioni si siano svolte «in una situazione di sicurezza difficile e in un contesto di crescenti restrizioni per i media», ma si è anche affrettato ad augurarsi una ripresa veloce del negoziato sulla crisi dei migranti e sull’ingresso della Turchia nell’Ue.
Per l’Europa del resto il tempo dell’attesa è finito ed è arrivato il momento di trovare un accordo con Ankara, «piaccia o non piaccia», come ha ricordato qualche giorno fa il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. L’Ue aspettava di vedere come sarebbero finite le elezioni sperando in un successo meno netto di Erdogan per poter trattare da una posizione di vantaggio. Per questo ha rimandato a dopo la chiusura delle urne una risposta alle richiesta di liberalizzazione dei visti, di classificazione della Turchia come paese sicuro e di ripresa del percorso di avvicinamento all’Ue. Tutti punti che il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermas aveva inserito in un accordo con Ankara dato per fatto alla fine di settembre ma bocciato dai capi di Stato e di governo. Che pure non hanno chiuso nessuna porta alla trattativa, come dimostra la decisione di rimandare la pubblicazione dell’annuale rapporto sulla Turchia dove, stando a quanto anticipato dalla Reuters, non mancherebbero pesanti critiche per l’adozione «di una legislazione nel campo della libertà di espressione e di assemblea che va contro gli standard europei». Un giudizio che va in senso decisamente contrario ai desiderata di Ankara.
I dubbi e le incertezze adesso rischiano però di passare in secondo piano di fronte alla necessità sempre più urgente di convincere Erdogan a fermare i migranti. Necessità che fa leva anche su una forte pressione economica, visto che l’Ue ha promesso tre miliardi di euro l’anno per la realizzazione di nuovi campi profughi in Turchia e un maggior controllo delle frontiere.
Che da oggi l’Europa possa essere sotto ricatto da parte di Ankara sembra quindi quasi scontato. Anche perché a peggiorare le cose non mancano nuovi segnali della rottura che la crisi dei profughi ha creato in seno all’Unione. Uno arriva dal parlamento ungherese che ieri ha votato a stragrande maggioranza, 141 voti contro 27 e una sola astensione, una risoluzione con cui Budapest contesta alla Commissione europea il diritto a istituire una sistema di quote per la distribuzione dei migranti tra i paesi membri. Un altro bastone tra le ruote del già fragile meccanismo dei ricollocamenti. E che va ad aggiungersi alla pericolosa rete di micro conflitti in corso nei Balcani sulla gestione dei profughi. Conflitti che preoccupano molto Angela Merkel che teme lo scoppio di nuovi conflitti nell’area. «Non voglio dipingere tutto a tinte fosche – ha confidato ieri la cancelliera in un incontro di partito – ma accade più velocemente di quanto si pensi che da una lite si passi a una zuffa e da questa a cose che non vogliamo. Non vorrei che lì (nei Balcani, ndr) fossero di nuovo necessari dei confronti militari».

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