Non è semplice capire se la mostra appena inauguratasi alla Monnaie di Parigi Not Afraid of Love (fino all’8 gennaio 2017) segni il ritorno di Maurizio Cattelan nel formato di una post-post retrospettiva oppure sia, in chiave intimista, la sottolineatura di una resa invincibile. Ha il retrogusto della messa in scena delle morti artistiche, un ostentato eccesso di biografia.

Il successo internazionale di Cattelan e All, la grande retrospettiva che nel 2011 gli dedicò il Guggenheim di New York, firmata da una teorica dell’appropriazionismo come Nancy Spector sembravano aver decretato un ultimo atto. Cattelan chiudeva definitivamente i conti con il sistema dell’arte. Quelli con la storia dell’arte, invece, li aveva già saldati, saltandola a pie’ pari.

Aveva cercato di ancorare il suo insieme di operazioni mediatiche esclusivamente al regesto dell’iconicità moderna e contemporanea, e si era ritrovato nelle mani del mercato e delle sue speculazioni. Pensiamo al pupazzo di Picasso che stringe la mano alle persone in coda all’entrata del Moma a NY, o al tamburino piazzato pericolosamente in bilico sul cornicione del Louvre: rappresentavano un gioco a nascondino con i rituali del consumo artistico e dei suoi prodotti culturali. Un’arma a doppio taglio ha sempre permeato la pratica di Cattelan, ancor prima che anche la «lama» della provocazione cedesse il passo alla malinconia.

0003d274_medium
Chiara Parisi, da esperta curatrice rispettosa della sensibilità degli artisti, ha lasciato che Cattelan organizzasse questa stanchezza di fondo, palesando il fatto che sono passati anni luce dalla scritta Hollywood sulla discarica dei rifiuti di Palermo o dai bambini impiccati in piazza 24 maggio a Milano. Persino il suo monumentale L.O.V.E.- il dito medio eretto davanti alla Borsa valori di Milano – in mostra è diventato un piccolo gadget argentato, da appuntare sulla giacca come segno distintivo per una setta di exhibition-goers di un contemporaneo che finiremo per dimenticare.

I suoi lavori sono comunque presenti, rimasti impressi nella memoria collettiva come traccia dei colossali autogol delle istituzioni per cui o da cui furono, di volta in volta, prodotti: dalla Biennale di Venezia, alla giunta Moratti in periodo pre- elettorale e così via, fino agli scandali del loro riciclo. Come l’Hitler inginocchiato nella direzione del ghetto di Varsavia o di fronte a La fine di Dio di Fontana (Him, 2001), nella galleria di Gagosian. Qui pare un bambino in castigo davanti a una porta chiusa: banalità del male.

Il vecchio poster della Biennale dei Caraibi la sola in cui non veniva chiesto agli artisti di produrre opere, ma di spassarsela sulla spiaggia – quella che Cattelan co-organizzò due decenni orsono – fa capolino nel bookshop parigino. Suona come un monito, un piccolo eccesso di pigrizia, alla Marcel Broodthaers. Lentamente, lungo tutto il percorso espositivo, la dimensione del «Cattelan guitto» si sfoca e viene sostituita con quella dell’artista strategico e cerca di delineare la sua prossimità con le pratiche dei grandi dell’Arte Povera o del Concettuale storico. Aveva ragione Germano Celant nel presentarlo assieme a Spalletti e Cucchi in un Padiglione italiano degli anni Novanta: del primo condivide qualche volta gli algidi silenzi, del secondo la ieraticità.

A queste alte intuizioni critiche, purtroppo, si è sovrapposta l’immagine di un lavoro strillato e imposto nella dimensione mediatica. Sono rimasti i piccioni impagliati, o meglio i  suoi turisti. L’arte potrebbe abitare i luoghi migliori del pianeta. In Italia, c’è  una certa resistenza nel valutare Cattelan sotto questa luce: vige un principio di parallelismo tra il suo fare e l’estetica degli anni berlusconiani. Probabilmente, per considerarlo  un artista più impegnato – se non eminentemente politico – dovremmo ammettere che il suo tappeto Belpaese (quello del formaggino) è uno dei posti migliori dove nascondere la cenere di scandali e inciucci.

In fondo, Cattelan fu insignito di una laurea honoris causa all’università di Trento assieme a Tina Anselmi; in termini di immagine politica, si era ritrovato  in compagnia di una presidente dell’antimafia. A lui il titolo fu conferito «per l’impegnata e creativa ricerca artistica con la quale rende relative le verità usuali, smaschera i pubblici inganni e scopre il senso nascosto delle società del nostro tempo». Oggi, lui è più Lucignolo che Pinocchio. E cerca ancora di trascinarci (per farci perdere) in quel paese dei balocchi che è diventata l’arte contemporanea.