È un viaggio nella storia culturale e politica, dagli anni Venti del XX secolo fino all’alba del terzo millennio e, al tempo stesso, il percorso di un essere umano, quello che propone la retrospettiva dedicata a Henri Cartier-Bresson dal Centre Pompidou di Parigi (visitabile fino al 9 giugno, apertura eccezionale ogni giorno fino alle ore 23).

A dieci anni dalla morte del reporter, la mostra che presenta trecentocinquanta scatti (la maggior parte, in tirature originali), oltre a disegni, pitture, documenti e film, intende rileggere l’opera del più grande fotografo francese non più come un unicum definito dall’«istante decisivo» (a lungo chiave di lettura del suo lavoro come equilibrio formale e concettuale che rivela l’intensità di una situazione), ma in quanto «successione di momenti». Si va così dall’interesse per la geometria che caratterizzò le prime fotografie fino alle scelte zen degli ultimi anni, passando per le opere classiche, i grandi reportages dal mondo, insistendo – forse un po’ troppo – sull’impegno politico militante. Vicinanza con i surrealisti, guerra di Spagna, povertà della Grande Depressione, conflitto mondiale, decolonizzazione, guerra fredda, società dei consumi del secondo dopoguerra, Maggio ’68 sono dunque oggetto di una presentazione che suggerisce un attivismo che Cartier-Bresson aveva sempre rifiutato: «Non ho mai messo il mio lavoro al servizio di un’idea – ha affermato in più occasioni – non mi piacciono le immagini a tesi». Anche perché, amava raccontare, «sono diventato fotografo guardando. Poche persone guardano, piuttosto pensano e non è la stessa cosa».

L’identità più profonda di Henri Cartier-Bresson è quella di un vero umanista: «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore, è un modo di vivere» che incrocia nell’opera l’approccio poetico con la forza della testimonianza. All’inizio, c’è la passione per la pittura, l’influenza di Cézanne, l’attenzione alla geometria, sviluppata negli anni di frequentazione dell’atelier del pittore André Lothe.

Di famiglia alto borghese, da giovane a Parigi aveva frequentato i Surrealisti, che vengono ricordati nei suoi lavori: in mostra, sono proposte alcune fotografie emblematiche di questo primo periodo, con oggetti impacchettati, corpi deformati, sognatori con gli occhi chiusi ecc. Dai surrealisti, il giovane Cartier-Bresson mutuò soprattutto l’atteggiamento verso la vita, lo spazio lasciato all’inconscio, il piacere della flânerie, la predisposizione ad accettare il caso.

Nel 1930-’31, viaggiò in Africa, da dove ritornò con una serie di fotografie prive di ogni tentazione esotica, che rifiutavano quello che chiamava «il detestabile colore locale», ma che coglievano il ritmo delle società, stilisticamente con l’influenza della corrente della Nuova visione, con innovazioni formali ereditate dal costruttivismo russo. Sempre con il gruppo dei Surrealisti condivideva anche l’impegno politico. Cartier-Bresson negli anni Trenta lavorò per la stampa comunista; i suoi primi reportages furono realizzati per pubblicazioni del Pcf, come Regards o Ce Soir, diretto da Aragon, anche se più tardi il reporter non insisterà troppo su questo legame, per timore di avere problemi con il visto per gli Usa, in periodo maccartista. Ma come si può capire «l’interesse che il fotografo ebbe per il popolo, il suo fascino per le folle, le critiche alla società dei consumi e quindi del capitalismo se si ignora questo impegno?», si chiede il curatore della mostra parigina, Clément Chéroux.

Nel ’34-’35, Cartier-Bresson raggiunse gli Usa e poi il Messico, dove frequentò intellettuali impegnati politicamente. È qui che imparò la tecnica cinematografica, la stessa che gli servirà per le riprese durante la guerra di Spagna (’36-’39), accanto a Paul Strand e alla cooperativa di documentaristi Nykino (contrazione di New York-Kino, cinema in russo). Per Cartier-Bresson il cinema è sempre stato un mezzo che permetteva di raggiungere un maggior numero di persone rispetto alla fotografia, e quindi di trasmettere più facilmente il messaggio voluto.

Di ritorno a Parigi, nel ’36, realizzò reportages sulla vita operaia e avviò una duratura collaborazione con il regista Jean Renoir. Nel ’37, inviato a Londra per l’incoronazione di George VI, fotografò esclusivamente il popolo britannico accorso alla cerimonia, ignorando il re. Le immagini della povertà della crisi del ’29 colpiscono ancora oggi, purtroppo, per la loro attualità: sembra di vedere le strade della Parigi odierna.

In seguito, fatto prigioniero durante la guerra, riuscì a scappare e a unirsi a un gruppo di resistenti comunisti: tra il ’44 e il ’45 documentò le rovine del villaggio di Oradour-sur-Glane, dove il 10 giugno ’44 i Waffen-SS massacrarono tutta la popolazione, facendo 652 morti, poi riprese il ritorno dei prigionieri; infine, immortalò le ore della liberazione di Parigi.

Nel ’47 era già famoso e il Moma di New York non disdegnò di dedicargli una mostra. È in quello stesso anno che Henri Cartier-Bresson, assieme ad altri fotografi tra cui Robert Capa e David Seymour fondò l’agenzia Magnum. Arrivarono così i suoi reportages più famosi, pubblicati dai grandi magazine: le folle indiane ai funerali di Gandhi, la corsa all’oro dei cinesi, la Russia dopo la morte di Stalin, Cuba nel ’63 dopo la crisi dei missili, il Maggio ’68 a Parigi e i cambiamenti della Francia dell’epoca. Cartier-Bresson fotografava soprattutto il lavoro, la meccanizzazione, che visualizzava come un rischio che divora l’uomo.

Nel ’58, Georges Braque gli offrì il libro di Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro all’arco. In disaccordo con la nuova gestione della Magnum, più commerciale, progressivamente Cartier Bresson cominciò a non accettare più lavori su commissione e, lontano dal principio dell’istante decisivo, dai sessant’anni fino alla morte nel 2004, tradusse la filosofia zen nella fotografia, con immagini calme e contemplative, dove tornava l’interesse per la geometria del primo periodo.