Urbanizzazione. Il cavallo di battaglia del nuovo premier Li Keqiang. Più megalopoli, metropoli e città. E tanta, tanta gente che lascia villaggi e campagne. Più consumatori e meno contadini, più terziario e meno produzione. È questo l’ambizioso l’obiettivo che si pone l’attuale leadership: 900 milioni di residenti urbani entro il 2025. Significa che, se tutto andrà come previsto, per quella data un abitante della Terra ogni otto vivrà in città. Allora il mercato interno della Cina guiderà i consumi mondiali. Forse nel 2025. Ma nel frattempo è ancora il 2013 e percorriamo le sterminate campagne cinesi.

Siamo nello Henan, il cuore della Cina. Qui, lungo le rive dello Huanghe, il fiume Giallo, è sorta una delle più antiche civiltà agricole dell’intero pianeta. Quelli di queste terre sono stati tra i primi gruppi umani dell’intero pianeta a scrivere, navigare, organizzarsi. E a creare le infrastrutture e le strutture politiche necessarie agli imperi. Da sempre, per «il bene del paese», sono pochi a decidere e molti a ubbidire.

Questa regione è da sempre il granaio della Cina. Una fortuna agli albori della civiltà, ma una palla al piede nel terzo millennio. È tra le più povere e più sfortunate dell’ex impero di mezzo. L’ultima volta che è salita alle cronache internazionali è stato alla fine degli anni Novanta grazie allo scandalo del sangue. All’epoca ci si rese improvvisamente conto che la soluzione immediata alla povertà attraverso vendita del proprio sangue – promossa da quella macchina di persuasione capillare che è la propaganda governativa – era stata la causa della massima diffusione dell’hiv nell’intera Cina.

Oggi la maggior parte degli henanren, quelli che sono nati e cresciuti nello sfortunato Henan, fanno parte dell’esercito di manodopera fluttuante che ha costruito il «miracolo» cinese. Sono i lavoratori migranti, quei duecento e passa milioni di persone che dalle campagne si sono già trasferiti nelle principali città cinesi senza che queste offrissero in cambio assistenza sanitaria e istruzione per loro e le loro famiglie.

Nel 2011, però, c’è stato un interessante cambiamento di tendenza. Per la prima volta sono stati più i lavori migranti che hanno trovato lavoro nelle principali città della loro regione che non quelli costretti ad andare molto lontano. Per le terre lontane dai centri nevralgici della nazione significa poter muovere denaro e occupazione. E le autorità locali, che devono raggiungere gli obiettivi che il governo centrale gli impone senza per questo ricevere aiuti economici, non si sono lasciate sfuggire l’occasione.

Taikang è un capoluogo di contea da oltre un milione e mezzo di abitanti che da un anno e mezzo a questa parte vive in un cantiere a cielo aperto. Siamo circa a un migliaio di chilometri a sud della capitale, ma sembra quasi di aver fatto un viaggio nel tempo. Il mercato ortofrutticolo sfrutta in maniera disordinata un incrocio trafficato della quotidianità: occupa le strade tra la stazione delle corriere e le squallide mall di provincia. L’asfalto, dove ancora è presente, risale a un’epoca indefinita. E le orribili case a due, tre piani ricoperte di piastrelle vengono via via abbattute per far posto ad altrettanto orribili casermoni a cinque, sei piani.

Questa, è una soluzione comune dei governi locali per fronteggiare il debito. Fanno soldi vendendo terreni ai cosiddetti sviluppatori immobiliari e poi appalti e indotto (e spesso mazzette) fanno il resto. Hanno il vincolo della quantità di terreni a uso agricolo che è stabilito da Pechino ma lo risolvono concentrando i cittadini in verticale. Così si fa spazio ai palazzinari e la campagna entra a far parte della città. Ma la sua gente se ne allontana.

Siamo a Xunmukou, un villaggio di qualche migliaio di anime, della contea di Taikang che a sua volta fa capo alla prefettura di Zhoukou. Siamo arrivati qui inseguendo una di quelle notizie di cronaca che scrittori del calibro di Mo Yan trasformano in letteratura: il realismo magico di un paese comunista. Zhoukou decide di «recuperare i campi all’agricoltura» e si appoggia a una politica che incoraggia la cremazione varata quasi in contemporanea con la fondazione della Repubblica popolare nel lontano 1949: i morti non devono «penalizzare» i vivi. Le tombe occupano spazio altrimenti coltivabile quindi, si abbattano.

Il movimento per la distruzione dei cimiteri

La propaganda l’ha chiamata l’eterna lotta dei vivi contro i morti. E subito è sorto un esercito di «volontari»: il movimento per la distruzione dei cimiteri. 7 milioni di euro, le giurisdizioni di 28 contee coinvolte e quasi due milioni e mezzo di tombe spianate. Il premio era di soli 400mila euro. A cui aggiungere duemila ettari di terra nuovamente arabili, da scambiare – possibilmente – con lotti più vicini ai centri urbani. Quelli che sul mercato valgono di più.

Ma per chi ancora vive accanto alle tombe dei propri avi l’affronto alla memoria non è stato tollerabile. Il tumulo della tomba è la testimonianza che quella famiglia ha una discendenza. Ogni anno, quindici giorni prima dell’equinozio primaverile, si aggiunge nuova terra sulla sua sommità. Il merlo che verrà a beccare i vermetti dalla terra grassa appena smossa è di buon augurio. Si apre così la stagione che porterà al raccolto. E comprensibile come, nella mentalità contadina, la distruzione di un tumulo possa portare sfortuna a un’intera famiglia. Distruggere due milioni e mezzo di tombe lede la sensibilità di diversi milioni di persone, molte delle quali migrate in lontane città.

Disturbati dal comportamento inumano delle autorità di Zhoukou, a novembre scorso 300 intellettuali si sono appellati a Pechino.

Secondo il codice civile una tomba che contenga ossa o specifici oggetti commemorativi è da ritenersi proprietà della famiglia del defunto in quanto ne preserva la dignità umana. La legge dà ragione agli ultimi: non si può livellare le tombe senza il consenso dei discendenti. E il consenso, pare proprio che da queste parti non ci sia stato.

Così, quando i lavoratori migranti sono tornati a casa per il capodanno cinese, almeno la metà dei tumuli sono stati ricostruiti. E ogni tomba che rispuntava segnava un affronto visibile alla tracotanza dei funzionari locali che erano venuti solo sei mesi prima a spianarle con le ruspe. I maschi adulti del villaggio, quelli che in città fanno chissà quale mestiere, avevano ripreso in mano le vanghe per rendere onore ai loro antenati e al villaggio in cui sono nati e cresciuti. Un luogo ormai trasfigurato.

Xunmukou dista poco meno di una decina di chilometri dall’imponente edificio governativo che domina l’unica, gigantesca piazza del capoluogo della contea. Di fronte, l’unica strada a sei corsie perfettamente asfaltate della città. Come la piazza, il viale sembra deserto, le macchine si contano sulle dita di una mano e anche gli onnipresenti motorini elettrici e veicoli a tre ruote sembrano restii a percorrerla. Appena lasciamo alle nostre spalle i palazzi della politica, la strada si fa più stretta, i margini meno chiari. La varietà di mezzi di locomozione ci circonda nuovamente: trattori, carretti, camioncini, tre ruote, bici elettriche e a pedali, piccoli bus. Raggiungiamo la nostra destinazione a passo d’uomo.

Stiamo cercando la necropoli dei Wang, circa trecento tombe divelte. Chiediamo a una signora che ha un banchetto al lato della strada. Vende bibite e snack. Sta di fronte a quello che ci sembra l’ennesimo edificio in costruzione e che è la casa a due piani che ha sempre sognato. Anche qui, ci dice, hanno cominciato a ri-costruire un anno fa. E poco dopo è iniziata la campagna «per recuperare i campi all’agricoltura».

«Sai qual è il mio cognome?» E, senza aspettare risposta aggiunge: «Wang, come tanti in questo villaggio. Qui sono sepolte quattro generazioni dei miei Wang». È una signora quasi settantenne quella che ci fa attraversare la strada, girare intorno a un palazzo e attraversare un campo di grano alto già una ventina di centimetri.

Si ferma di fronte a una chiazza circolare non coltivata, ne notiamo altre due a pochi passi. «Era un tumulo, più alto di me. Ci credi? Poi a luglio sono arrivati quelli del governo con le ruspe… Guarda! – dice mentre si china a strappare un germoglio di grano – devo fare questo lavoro tutti i giorni per ritrovare mio padre». E ci indica anche la zia e il nonno. E il padre di suo padre che non ha mai conosciuto. Poi ci guarda intensamente «Voi non li rispettate i vostri antenati?».

Qingmingjie, la festa dei morti

Mancano meno di ventiquattr’ore a Qingmingjie, la festa dei morti, quella che cade quindici giorni prima dell’equinozio primaverile. Un momento per onorare gli antenati. Un culto antico come la civiltà cinese, proibito dal materialista Mao e riammesso solo nel 2008. Un culto che si è evoluto assieme alla modernità. Come la tradizione insegna si pulisce la tomba dalle erbacce, ci si inginocchia, si scoppiano petardi, si offrono cibi e si bruciano soldi di carta (e oggi anche iPhone, Rolex e altri status simbol moderni). Volevamo vedere se potevano esserci problemi. Qui non è per nulla scontato che la legge tuteli il più debole.

A Pechino ci si sente spesso consigliare di non fidarsi di quelli dello Henan. Lo si dice con la stessa ignoranza mista a paura dello sconosciuto che a Roma si sente usare per i rumeni. Eppure questa gente sa alzare la testa, e fare notizia. «Domani ricostruisco il tumulo, vedrai, alto come quelli laggiù». Così ci indica le altre tombe, quelle ricostruite dai disobbedienti del capodanno cinese. Sono cumuli di terra sparsi nell’immenso campo di grano. Qualcuno è contrassegnato da un giovane albero, un gruppo da una lapide alta un paio di metri, ma la maggior parte non hanno altro segno che le ceneri di un focolare. Dovrà fare da sola perché non ci sono uomini in età da lavoro. Solo donne, vecchi e bambini. Gli altri sono andati a lavorare in città.

Quando torniamo l’indomani mattina i tumoli della sua famiglia sono alti. Accompagniamo la signora Wang e i suoi nipoti a compiere i sacrifici, e ci congediamo. Tornando verso Taikang ci accorgiamo che i campi sono costellati di nuove tombe, ce n’è un gruppo a una trentina di metri dalla strada che attira la nostra attenzione. Saranno quasi trecento, tutte fresche di terra. Quando ci avviciniamo ci accorgiamo che è stata anche tirata su una lapide.

Era quella che si vedeva in nel video che l’anno prima aveva attirato la nostra attenzione. Quello che riprendeva il movimento per la distruzione dei cimiteri in azione, e le tombe divelte, e le ossa degli antenati confuse tra terra e detriti. Il suo piedistallo di mattoni è ancora sfregiato dalla benna delle ruspe, ma la lapide svetta in barba a tutti i distruttori di cimiteri. Non abbiamo molto tempo. Immediatamente due quarantenni in motocicletta ci sono a fianco. Ci spingono fuori dal campo in maniera poco gentile: «non vogliamo giornalisti» ci gridano addosso.

Torniamo al capoluogo della contea, quindi con una corriera raggiungiamo Zhengzhou, la capitale della regione, una megalopoli che fa quasi 9 milioni di abitanti. Attraversiamo le piane sconfinate coltivate a grano e costellate di tumuli e ci infiliamo nell’infinita periferia di quella che sarà un fiore all’occhiello della Cina del 2025 ma che per adesso è solo un cumulo di macerie. Il treno ad alta velocità parte da una stazione periferica finita di costruire appena un anno fa e percorre gli 800 chilometri che ancora mancano a Pechino in poco più di cinque ore. Al 2025 mancano ancora 12 anni. E 250 milioni di contadini da portare in città.