Un fantasma si aggira sugli schermi del cinema italiano, la nostalgia (canaglia?). A farne le spese è una generazione dai contorni un po’ vaghi, diciamo quarantenni – e poco più – la cui vita si è svolta almeno fino a lì come un tradimento ai sogni allegri della giovinezza, dispersi tra famiglia, figli, compromessi, abitudini. Di certo questi ex-ragazzi per forza non hanno assorbito lo spirito foreveryoung di chi li ha preceduti, quelli che oggi stanno sulla sessantina e oltre e che avendo scoperto (e praticato) per primi – almeno in Italia – il formato del giovane fino al 68 impensabile, non lo hanno mai smesso o quasi. Loro invece, poveri, sono tutto il contrario, non fosse altro che per reazione, e assumono l’essere adulti come una specie di dovere ai limiti del sacrificio. Erano così i personaggi di Francesca Archibugi, nella sua versione italiana de Il nome del figlio, che davanti a un tavolo ripercorrono i legami, gli amori e le passioni di ragazzi inaciditi nel filo del tempo. E sono così i protagonisti del nuovo film di Sergio Castellitto, tratto come sempre dal libro della moglie, Margaret Mazzantini, autrice anche della sceneggiatura. Solo che qui la lente è la coppia, o meglio la fine di una coppia e di un amore in cui si mischiano però,inevitabilmente, il dissolversi di entusiasmi e fantasie sul futuro.

 

 

 

Gaetano e Delia – Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca bravissimi a reggere tutto il film che ci credi sempre anche alle battute più assurde e fastidiose – si sono lasciati, e la cena gelida e sull’orlo della lacrima che ce li mostra insieme è lo spunto per ripercorrere la loro storia d’amore di ragazzi romani, con l’idea di fare cinema, lui almeno che ha nel computer il grande romanzo e finisce a scrivere i testi per programmi tipo Amici o Forte forte forte. Lei è una ragazzetta bella e scanzonata, lui è possessivo e coattone – «Piuttosto che tradirti me lo taglio» le grida. E la bacia con la bocca piena di crema dei bomboloni, e quando avranno un figlio si attacca alla tetta perché pure di quel maschietto tra di loro è un po’ geloso. Ma è cresciuto a Ostia figlio di genitori freakkettoni sessantottini che si amano con la pasta al sugo e le canne che la madre (Eliana Miglio) svampitissima fuma dopo cena. Lei è incantata, lui se ne vergogna (tipico castellittiniano).Lei viene dalla buona borghesia della capitale, il padre che amava è morto e la madre (Anna Galiena) cantante è sempre stata troppo presa dalla carriera.

 

 

E poi? E poi i minuti si srotolano e le accuse pure, avanti e indietro, dalla parte di lei e dalla parte di lui i flashback ci portano in dieci anni di salottini fumosi della Roma nord, con questi ragazzi cresciuti tra la fine del Muro e l’11 settembre, generazione della patacca o del remake come dice l’amico regista (Francesco Lai) che poi diventa a famoso e stronzo specie dopo il red carpet alla Festa del cinema di Roma. Intanto la casetta al Flaminio – sempre zona Auditorium – dove vivono Gae e Delia appare sempre meno romantica, mentre col secondo figlio le paranoie di lei crescono: «Ho paura di tutto del cancro al seno dei pedofili della meningite» scoppia a piangere da Ikea. Certo è che ai ragazzini per merenda gli mette nello zaino carota e sedano (poveri), li correbbe portare in campagna e si angoscia quando il figlietto maggiore cammina sui tacchi alla Ed Wood – mica sarà omosessuale? che manco fossimo in una fiction di prima serata modello Grande famiglia.

 

 

Colpa mia, colpa tua. Certo che pure lui mentre scopano lasciarla a metà per parlare con l’impresario di partita Iva …
Cosa è allora questa nostalgia che spunta nell’astio e della durezza del dopo, del «Dillo che non mi ami più colonna sonora Dalla La sera dei miracoli? È passato, e presente dei figli delusi dal padre distratto, e spaventati dalla madre iperprotettiva, dei rancori e dei rimpianti, della bocca dura e del gelato tirato in faccia. E il personaggio di Delia è attuale e «vero» col suo essere madre un po’ selvaggia un po’ vegana , un po’ anoressica e persino con impulsi ge assassini. Così come in Gaetano il ragazzo cresciuto troppo in fretta con la voglia adesso di scappare dall’odore di ammorbidente.

 

 

 

Quello che sfugge è perché la nostalgia da fine di un amore deve essere dimostrativa, dire perciò qualcosa sul cinema italiano e sulla crisi che «costringe« alla tivvù, sui fondi di garanzia e sui padri che non hanno lasciato nulla (altro tormentone di Castellitto), con tanto di «slinding doors» e momento surreale di Vecchioni e Molina che gli spiegano la forza dello stare insieme.

 

 

La nostalgia modello cinema italiano da sceneggiatura deve chiudere, circoscrivere, spiegare, indottrinare in modo che ci entri dentro tutto e il suo contrario. Nel melò, che pure Castellitto cerca, non ci crede e così invece di lasciarli liberi chiude Gae e Delia in un implacabile destino in cui la nostalgia finisce per disperdersi fuori dal tempo, da ogni tempo,interiore e collettivo che non sia quello autoreferenziale e schematico (e poco interessante) del regista. Peccato.