Quando – tra una sala e l’altra di Palazzo Altemps – si scorge, solitaria, la Kore 602 si ha la sensazione di esser di fronte a un reperto anomalo. La statua, alta poco più di mezzo metro e risalente alla fine del VI secolo a.C., si presenta in quattro frammenti «sospesi» in successione a comporne la figura originaria. Manca la testa, di cui si conservano invece – come una reliquia di pietra – le trecce che scendono sul petto. In prestito dal Museo dell’Acropoli di Atene per la mostra La Forza delle Rovine (a cura di Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro, visitabile fino al 31 gennaio 2016), la Kore irrompe con famigliarità in un presente di decapitazioni archeologiche.

Un tempo deposta quale offerta votiva sull’Acropoli di Atene, la scultura non scampò alla devastazione persiana – ombre da fuoco sono riconoscibili tra le pieghe della veste – e neppure al superstizioso timore dei Greci, i quali la ridussero in frammenti poiché profanata dai barbari. Sebbene l’esposizione non rimandi a Nimrud, Hatra e Palmira, rovine del passato divenute brutalmente rovine dell’epoca attuale, il filo che unisce opere antiche, moderne e contemporanee è una riflessione estetica e interiore sul concetto di rovina, spettro o memoria con cui confrontarsi. Promossa dalla Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma con Electa, La Forza delle Rovine è scandita in nove sezioni e attraversa tutte le sale di Palazzo Altemps, che per l’occasione riapre tre ambienti del primo piano.

Se da una parte, citando le parole dei curatori, la collezione permanente accoglie la mostra come «un ospite dalla conversazione brillante ma che non dà sulla voce», dall’altra l’ampiezza degli spazi della sontuosa dimora cinquecentesca provoca disorientamento e infrange il continuum di un percorso costellato da centoventi opere. L’allestimento, realizzato dallo Studio Artes di Roma, introduce subito in una strettoia di catastrofi che vanno dalla presa di Palermo immaginata da Renato Guttuso come ammasso di corpi (Massacro, 1943) alle foto di Gabriele Basilico e Massimo Siragusa, i quali in Beirut (1991) e Twentynineseconds, Onna (2009) immortalano le macerie di guerre e terremoti. Immancabile il riferimento all’11 settembre 2001, rievocato in maniera originale con la copertina del graphic novel di Art Spiegelman In the Shadow of no Towers (2004). La narrazione prosegue nel teatro del palazzo – piccolo gioiello da ammirare en passant – dove lo «spettacolo» delle rovine si svolge su schermi che proiettano in loop sequenze cinematografiche.

A Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini e Ulysse’s gaze (1995) di Theo Angelopoulos spetta il compito di fermare lo sguardo sul disfacimento della storia, restituendo un po’ di drammatica poeticità. A riportare l’archeologia, se non al centro della rassegna, almeno fra i sentimenti in sottofondo è la sezione Torso: dal desiderio di integrità al culto del frammento. Il colossale ma mutilo Polifemo della collezione Altemps invita a conoscere quel processo di «riempimento» delle lacune che dal Seicento fino agli inizi dell’Ottocento caratterizzò le botteghe romane del restauro, tra nostalgia dell’antico e inganno moderno.

Alla seduzione del reintegro non si sottrassero scultori celebri quali Alessandro Algardi e Lorenzo Bernini; poi, la dignità artistica del frammento fu «sdoganata» da Auguste Rodin. La fortuna del Torso del Belvedere – di cui è esibito un calco di fine XVIII secolo – è esplorata nelle sue numerose sfaccettature: dal religioso studio illustrato nelle tele di Jean-Léon Gérôme (Michelangelo mostra il Torso del Belvedere, 1849) e Angelica Kauffmann (Il disegno, 1778-1780), all’impronta dell’ispirazione che si manifesta nel Torso di Giovinetto (1929 c.) di Arturo Martini e in Pollock’d Belvedere Torso (2015), creazione pop e splatter di Logan De La Cruz. Benché Marcello Barbanera – ideatore dell’esposizione – non abbia inteso proporre una galleria di «bucolici paesaggi pittorici disseminati di colonne spezzate e architetture classiche avvolte da rampicanti», in Paesaggi di rovine emerge la fascinazione del rudere, che ebbe il suo culmine tra XVIII e XIX secolo.

Dal Museo Benaki di Atene viene Il Portico delle Cariatidi dell’Eretteo (1813), acquaforte acquerellata di Louis-François Cassas, autore riaffiorato di recente per i suoi – ora preziosissimi – disegni dei monumenti di Palmira. La sezione immediatamente successiva – Paesaggi rovinati – cala il sipario sul romanticismo e spinge a una presa di coscienza della realtà odierna, dove fantasmi industriali e rifiuti (dis)umani divengono scarti di civiltà. Emblematica, in questo senso, l’immagine del bambino siriano che si muove tra resti di edifici e sacchi di spazzatura (Daniele Vita, 2014).

Lascia perplessi il tributo a Giambattista Piranesi, che delle architetture romane nelle quinte del Settecento fu cultore e «chirurgo» con la matita: se di Anatomia delle rovine si tratta, perché offrire al pubblico le meno dissezionate fra le vedute del grande incisore? Nel lungo e denso percorso, c’è posto anche per un’installazione sonora: la Marcia Funebre dell’Eroica di Beethoven che, nata da un souvenir, diviene «elegia su una rovina» – così Sandro Cappelletto nel catalogo Electa – e il Rendering di Luciano Berio, il quale omaggia le sinfonie di Schubert «restaurandone» i frammenti, sono alcuni dei brani che si possono ascoltare nella suggestiva cornice di Sant’Aniceto, chiesa interna a Palazzo Altemps. Ma, come per l’invenzione approntata nella Sala del Galata – dove a fogli che rimandano ai poemi della tradizione preislamica scritti su pezzi di lino (Mu’allaqat) sono affidati stralci di letteratura sulle rovine, da Cicerone a Eliot – si rileva una distanza tra il pensiero che sottende quest’ambiziosa mostra e la sua non facile trasposizione nei diversi linguaggi dell’arte.

L’ultimo scorcio, dal titolo (Ri)costruire le rovine, ha invece il pregio di suscitare una meditazione incalzante. Il rapporto tra archeologia e modernità in Italia che innescò il dibattito già all’epoca degli sbancamenti fascisti per la costruzione di via dei Fori imperiali, chiede nuove risposte. Tanto che il grido della giornalista che nel film Roma di Fellini è sconvolta dalla velocità alla quale si dissolvono gli affreschi di una domus nel caos della metropoli, potrebbe essere scambiato per quello di tanti addetti ai lavori e cittadini dell’oggi. L’esclamazione «Fate qualcosa!», si ripete come un’eco, perché le rovine ci riguardano. Lo sapeva bene anche Giorgio de Chirico, che le elevò a totem imperituro.