Dopo quattro anni d’indicibile travaglio – e con l’accordo di uscita targato Boris Johnson approvato da Westminster, ratificato dalla monarca e controfirmato da Bruxelles – ecco improvvisamente scoccare l’ora Brexit. Stasera alle undici (Gmt: non per nulla il meridiano di Greenwich è a Greenwich), il paese lascia formalmente l’Unione Europea per entrare in mare aperto e nel cosiddetto periodo, un anno, di transizione. Il passaggio epocale avverrà senza troppe fanfare: sono le unioni che le meritano, non le separazioni. Tacerà il Big Ben, al momento imbustato in vari strati d’impalcature per un lungo restauro: si era pensato di ripristinarlo temporaneamente alla bisogna, ma l’operazione era troppo costosa. Ci si accontenterà di proiettarlo sul muro di Downing Street mentre scorre il conto alla rovescia, come una sorta di ultimo dell’anno da europei, mentre Nigel Farage, protagonista mercoledì di un discorso di commiato a Bruxelles gonfio di acido nazionalismo piccolo-borghese, sventolerà le sue bandierine a Parliament Square. La zecca di stato ha emesso una moneta da cinquanta pence che celebra l’uscita e su cui si sono moltiplicate le polemiche (dopo che una precedente era stata battuta solo per essere fusa, complice l’ennesimo rinvio dei mesi scorsi). Altro cambiamento epocale e assai dirimente: il cambio di colore del passaporto, che dal burocratico amaranto del blocco rispolvera la propria livrea blu imperiale. La cosa avrà commosso non pochi pensionati euroscettici.

La sobrietà delle celebrazioni confluisce nel dettato governativo di questo inizio d’anno: espungere la parola Brexit dal lessico quotidiano per cominciare il lungo periodo di sutura e rimarginazione delle mille ferite apertesi nei corpi psicologico, politico e sociale del paese. Sono stati anni d’infiniti dibattiti, discussioni, confronti e litigate in una questione identitaria che, proprio perché ha riportato la politica al suo grado zero, vi ha coinvolto milioni di cittadini solitamente del tutto alieni. Per la stessa ragione – e soprattutto grazie alla micidiale maggioranza di ottanta seggi riportata a casa alle scorse politiche – Johnson tiene la bocca cucita circa i modi della negoziazione del futuro commerciale fra i neodivorziati.

Il riottoso parlamento di qualche mese fa è un pallido ricordo, pieno com’è ora di oscuri parlamentari conservatori provenienti soprattutto dal nord ex-laburista che mai si sarebbero sognati lo scranno verde se non fosse stato per Brexit. E come tale non ha la minima intenzione di chiedere da conto al governo sulle direttrici che intende percorrere nella futura, lunga e di certo altrettanto spossante, fase della negoziazione.

Quanto al governo, è in programma un probabile rimpasto. I deputati europei britannici invece, stanno svuotando i propri uffici. D’ora in avanti il premier non sarà più presente by default ai summit europei, ma avrà bisogno di un invito particolare. Nel frattempo, fino alla fine del 2020 tutto resterà apparentemente come prima: circolazione di uomini e merci, patenti di guida, pensioni per i cittadini europei residenti in Uk e reciproca assistenza sanitaria. Questo periodo di transizione, che dovrebbe vedere la formulazione del nuovo assetto commerciale fra Londra e Bruxelles, sarà abbastanza verosimilmente esteso. Forse anche più di una volta, tanto elefantiaco si profila il compito. Sulla carta lo è per due anni, anche se nella sua solita retorica sovreccitata Johnson ha definito «epicamente probabile» che ciò non accada e si riesca a ratificare il tutto sul filo di lana del 31 dicembre 2020. Il premier si era detto pronto a risedersi al tavolo delle trattative dal primo di febbraio, mentre i ventisette non lo saranno probabilmente prima del 3 marzo, il tempo necessario a delineare una posizione comune. Insomma, quella di oggi è un’altra probabile fine dell’inizio.