Nel Regno Unito si vota tradizionalmente di giovedì, e le elezioni europee non fanno eccezione: i cittadini britannici sono chiamati oggi alle urne per il rinnovo dei loro 73 rappresentanti al Parlamento di Strasburgo. Gli ultimi sondaggi dicono che i giochi sembrano aperti, e gli scenari possibili appaiono due. Il primo vede il Labour di Ed Miliband primo partito (29%, dati Icm), seguito dai Conservatori del premier David Cameron (26%) e dagli euroscettici dell’Ukip (Uk Independence Party) di Nigel Farage, che otterrebbero «solo» il terzo posto con il 25%. Il secondo dà invece gli anti-Ue in testa (35% dati ComRes), il Labour al 24% e i tories al 20%. Ampiamente distaccati i Liberaldemocratici del vicepremier Nick Clegg, molto danneggiati dal ruolo di partner minore della coalizione di governo: potrebbero perdere undici dei dodici seggi attuali, venendo addirittura scavalcati al quarto posto dai Verdi (dati in media al 7%).

L’accusa agli immigrati romeni di essere tutti criminali è stata una delle ultime sparate di Farage, e anche i media mainstream hanno messo in luce i tratti inquietanti di questa formazione: perfino il popolare tabloid Sun ha dato apertamente del razzista al leader anti-Ue. Nonostante ciò, l’ascesa dell’Ukip pare comunque irrefrenabile. Il suo probabile buon risultato non deve stupire troppo, a partire da un considerevole 16,6% di cinque anni fa, c’è l’astensionismo a pesare, ma soprattutto il fatto che nel Regno Unito l’idea di Europa non ha mai davvero attecchito, nemmeno prima della crisi. Durante la campagna elettorale, poi, Farage ha sempre vinto i faccia-a-faccia televisivi: il suo avversario nei duelli, il vicepremier liberale ed europeista Clegg, è sempre uscito con le ossa rotte.

Fra meno di un anno ci saranno le elezioni politiche, ed è quell’appuntamento che interessa davvero, in realtà, i partiti tradizionali. Anche per questo Miliband e Cameron sono stati alla larga dagli scontri tv fra Clegg e Farage: sull’Europa dell’austerity e della burocrazia avevano presagito il massacro, ed entrambi hanno pensato che fosse meglio assistere all’auto-immolazione del vicepremier.

Il laburista Miliband non ha davvero tutto il partito dietro di sé: avendo interrotto il lignaggio blairista di cui suo fratello David era depositario, vede crescere la pressione interna. I sondaggi sulle politiche del 2015 vedono il Labour in vantaggio, ma i Conservatori appaiono in recupero: per il giovane Ed c’è poco da stare allegro. I critici gli rimproverano, secondo i canoni degli spin-doctor in voga ai tempi di Blair, «una leadership suicida» e «un atteggiamento perdente».

Gli assai strombazzati dati sulla ripresa del Pil (1,7% nel 2013 e 2,7% quest’anno) e il calo della disoccupazione (al 6,6%) hanno ringalluzzito i conservatori del premier Cameron, che stanno meglio di qualche mese fa. A maggior ragione, dunque, i loro voti fanno gola al Ppe di Jean-Claude Juncker e Angela Merkel: i tories sono fuoriusciti dalla «famiglia popolare» nel 2009, per formare con altri euroscettici moderati polacchi e cechi il gruppo European Conservatives and Reformists (Ecr). Che però rischia di sparire, se alcuni membri non saranno rieletti. I democristiani di Merkel e i partiti di centrodestra francesi spingono per un rientro nei ranghi.

Tutto potrebbe accadere. Quando si tratta di Europa, i tories sono capaci di funamboliche prodezze: ci vuole un oscilloscopio per mappare i loro tentennamenti dentro-fuori, un secolare moto perpetuo d’indecisione che manda in bestia i tecnocrati di Bruxelles. Lo splendido isolamento della Gran Bretagna di oggi è un meticoloso bilanciare e procrastinare, ma il fine è lo stesso di sempre: evitare la prevalenza di un’egemonia economica franco-tedesca in Europa in ragione della special relationship con gli Usa, pur tutelando i propri interessi in quello che è il massimo mercato per le esportazioni nazionali.

Simili «convergenze parallele» costano fatica a Cameron, soprattutto ora che le scosse telluriche della crisi hanno, qui come altrove, servito su un piatto d’argento alle destre nazionaliste, xenofobe e populiste, abbondante malcontento da usare in chiave antieuropea. I tories hanno un’anima euroscettica composta prevalentemente dai backbenchers, i parlamentari di seconda fila, che Cameron aveva temporaneamente placato, promettendo un referendum sulla permanenza nell’Ue nel caso in cui il partito avrà la maggioranza assoluta alle prossime politiche.

Nel frattempo, però, il saldarsi della vocazione imprenditoriale atlantista e ultra-liberoscambista dei conservatori britannici con la crisi del progetto tecnocratico europeo ha prodotto il populismo di Farage, che si presenta come uno che non la manda a dire e cui piace farsi una pinta al pub più vicino. E che il referendum annunciato da Cameron vuole a tutti i costi, tanto da aver profferto sostegno ai Conservatori in caso di bisogno alle prossime politiche.

Definito pigramente il Beppe Grillo della Gran Bretagna, con il comico genovese Farage ha poco a che spartire: non tanto per il diverso mestiere precedente (era un operatore finanziario), quanto perché il Movimento 5 Stelle ha ormai un radicamento che lo Ukip non ha: è senza deputati nel Parlamento nazionale e amministra solo una cittadina. E l’elettorato non è davvero «suo»: chi lo sceglie è in prevalenza un conservatore euroscettico, piccola borghesia della little England incline al voto di protesta, e una parte di working class di provenienza Labour carica di risentimento per la concorrenza della manodopera a basso costo dovuta all’immigrazione.