I maschi sono sempre ipocriti quando hanno di fronte una donna che li accusa di discriminarli in termini di salario, di mansioni, di posti dirigenziali nel lavoro.

Rispondono che le donne hanno ragione, che bisognerebbe cambiare le cose, per poi aggiungere: “le cose però sono sempre così, non possiamo cambiare se non cambiano gli altri”. Poi accadono fatti imprevisti, cioè donne che si mobilitano per denunciare le discriminazioni anche nel ventre della bestia, cioè nel capitalismo delle piattaforme, sia che si tratti di Google, Amazon, Microsoft, Apple. A quel punto le reazioni stizzite e maschiliste non si fanno attendere.

Poco più di un anno fa, ha circolato dentro Google un documento misogino contro la presenza delle donne dentro la società di Sergej Brin e Larry Page in nome della critica dell’opprimente clima da politically correct nella Silicon Valley (Google’s Ideological Echo Chambers). Il motore di ricerca non poteva chiudere gli occhi e ha licenziato l’estensore del documento, prendendo l’impegno di «sanare» la situazione. È passato un anno e tutto è rimasto eguale.
Le donne hanno però cominciato a inondare la rete di tweet, prese di posizione per le discriminazioni e le molestie sessuali che scandiscono le loro lunghe giornate lavorative (dentro Google si può lavorare anche undici, dodici ore al giorno).

Ora il quartier generale di Google rinnova l’impegno a prendere seri provvedimenti per affrontare la rabbia e la frustrazioni delle donne discriminate e molestate, appoggiando la loro mobilitazione. Che il capitalismo delle piattaforme sia un regno maschile è cosa nota ed è quasi impossibile leggere prese di posizione maschili a favore delle donne che si battono contro le molestie sessuali e le discriminazioni sul lavoro.

Vanno tuttavia ricordati alcuni elementi che attengono al governo del lavoro vivo dentro e fuori il capitalismo delle piattaforme.

Il controllo sui dipendenti segue le linee del colore, del sesso, della formazione di base. In altri termini le gerarchie e il comando delle imprese sul lavoro assumono le tonalità della differenza sessuale e della razza, nonché dei meccanismi di formazione di base (da quale college, campus e in quale università ci si è laureati). Questo si traduce in differenze di salario, di accesso ai benefit aziendali, alla copertura sanitaria negli Usa; nella estrema precarietà per migranti e donne in Europa.

Sia ben chiara una cosa: la discriminazione sessuale ha una specificità che non va mai rimossa e le vicende di questi mesi lo attestano. La lotta di classe parla sempre più il linguaggio sessuato della differenza.

Si potrebbe dire che tutta l’esperienza di Non Una Di Meno ha questa potenza politica, legando i meccanismi di produzione e di riproduzione dentro e contro il capitalismo delle piattaforme.

Il livello di mobilitazione delle donne dentro Google ha superato i confini di Mountain View e della Silicon Valley. Ormai ci sono gruppi di donne europee e asiatiche che non hanno timore nel prendere la parola e porre con forza il problema. Va altresì ricordato che è stata proprio una donna a pubblicare una lettera contro la partecipazione di Google al programma di ricerca scientifica Maven del Pentagono. Il motore di ricerca, anche se riceveva milioni e milioni di dollari in un progetto di intelligenza artificiale, cioè il settore dove Google è molto impegnato, doveva rinunciare a quei finanziamenti. Ma alla fine quel documento diffuso nei mesi scorsi, un effetto lo ha avuto: Google si è preso una pausa di riflessione.

Dunque, tutto bene?  Secondo quanto scrivono giornalisti investigativi, analisti del mercato del lavoro digitale, dalle parti della Silicon Valley la pace sociale, siglata negli anni Novanta tra lavoratori e imprese, vacilla.

Per decenni il patto è stato chiaro. Lavorate sodo, fate crescere il business e l’impresa garantisce stock option per diventare milionari, alti salari, piani pensionistici e sanitari eccellenti, nonché un clima interno tollerante che incentiva l’iniziativa individuale, come recita ad esempio la regola non scritta di Google secondo la quale nel 20 per cento dell’orario di lavoro i dipendenti possono seguire un progetto personale usando macchine e infrastrutture dell’azienda. Elementi, tutti, che hanno determinato un basso tasso di conflittualità dentro le imprese del capitalismo delle piattaforme. Ora quel clima idilliaco sembra volgere al termine.

Si sono costituiti gruppi sindacali militanti che chiedono aumenti di salario, la fine della balcanizzazione dei mercati del lavoro interni tra precari e perms (l’aristocrazia digitale del lavoro), tra donne e maschi, tra migranti e autoctoni. E verso le donne. Dunque buone notizie, per una volta tanto, dall’empireo del capitalismo contemporaneo.