Negli anni settanta “il nazionalismo veniva giustificato come risposta allo sfruttamento economico o all’arretratezza imposta dal potere politico, si presentava come un movimento politico necessario per arrivare alla modernità.

Era facile estendere questo ragionamento ai popoli e ai territori tenuti ingiustamente ai margini dai centri “metropolitani”. Agli Stati baltici, ad esempio, che volevano sfuggire all’immobilismo russo; alla Catalogna, sempre più avanti dell’arcaico centralismo castigliano; all’Italia del nord, limitata dalla burocrazia romana e meridionale; al Quebec, luogo di una rivoluzione tranquilla che voleva lasciarsi dietro un Canada retrogrado.
La Scozia resta il fattore principale nella possibile rottura politica del Regno Unito, un’idea già forte negli anni settanta.
Si era sviluppata dopo la scoperta del petrolio del Mare del Nord nelle acque territoriali scozzesi (…).

Per i nazionalisti e gli autonomisti di Scozia e Galles sembrava esserci la possibilità di usarne una parte per modernizzare l’economia, reindustrializzarsi, ricostruire le infrastutture. Tali speranze sono state amaramente deluse (…).

Questa strategia avrebbe potuto esprimersi in cambiamenti costituzionali, nella formazione di uno stato federale o confederale nel Regno Unito?

(Tom Nairn, “The break up of Britain”, Introduzione all’edizione del 2003, prima edizione 1977)