Migliaia di chilometri separano la capitale argentina di Buenos Aires da un villaggio sperduto della Cina, tanto remoto da non apparire nemmeno sulle mappe. Luoshui, sorge sulle rive del Lugu, uno dei laghi di montagna più grandi di tutta l’Asia, a dodici ore di macchina da Lijiang, massima attrattiva turistica della provincia dello Yunnan che fa da cerniera tra Repubblica popolare, Birmania, Laos e Vietnam. Una provincia melting pot di culture che ospita 25 minoranze etniche differenti, al confine sud-occidentale del paese.

Soltanto quattro giorni prima di arrivare a Luoshui, la prorompente modernità di Pechino aveva accolto Ricardo Coler, medico argentino e appassionato viaggiatore dalla buona penna, con un turbinio di luci, il concerto prodotto dalle suonerie dei cellulari e l’inglese fluente di una giovane accompagnatrice cinese. Una volta giunto al villaggio, il ricordo della capitale fu spazzato via dal lento scorrere di una vita che nemmeno l’omologazione comunista e lo sviluppo a tappe forzate dell’ultimo trentennio sono riusciti a cambiare.A Luoshui vive «la più pura delle società matriarcali, un esempio di come può essere la realtà senza la presunta supremazia dell’uomo e senza l’oppressione che questa supremazia può esercitare».

Durante la sua prima visita, circa un anno prima, Coler aveva lasciato il villaggio con la certezza di volervi tornare. «Mi interessava capire come è una società in cui le donne non sono sottoposte a una cultura maschilista, in cui non hanno meno opportunità degli uomini né sono da loro messe in secondo piano» – ci spiega – «mi interessava capire, quando e dove a comandare sono le donne, che tipo di comunità e di famiglia si costituiscono; come funziona l’economia, quale è il rapporto con la sessualità. Volevo raccontare come funziona il matriarcato davvero, e non dal punto di vista della società patriarcale (che è l’unico che abbiamo)».

Quello che ha visto e vissuto nei mesi trascorsi a Luoshui, Coler lo ha messo per iscritto. Il Regno delle donne. L’ultimo matriarcato (edito da Nottetempo) inaugura una fortunata serie di racconti di viaggio che comprende diverse tappe asiatiche.

«Quando sono stato con i Mosuo ancora non esisteva una strada comoda e rapida per raggiungerli, erano ancora una comunità isolata dal resto della Cina. Lontani dai percorsi del turismo, sono stati con me estremamente amichevoli e e ospitali» racconta ad Asia Magazine.

I Mosuo, sono un’etnia composta da circa 40mila persone sparse sulle montagne che abbracciano il lago Lugu; Luoshui è soltanto uno degli innumerevoli villaggi Mosuo arroccati sull’altopiano dello Yunnan. Di loro si sa poco. Racconti frammentari, tramandati oralmente di generazione in generazione, si sono susseguiti in mancanza di una lingua scritta in grado di immortalarli per sempre. Per le autorità di Pechino, non sono altro che un sottogruppo dell’etnia tibetana dei Naxi, ma differenti lingue, religioni e culture sembrano mettere in discussione la ripartizione ufficiale.

Notizie discrepanti hanno alimentato pregiudizi, mistificazioni, malintesi. L’esploratore Joseph Rock, geografo, linguista e botanico, al ritorno da una spedizione nella regione, nell’edizione del National Geographic datata 1929 scriveva: «Qui le persone vivono e muoiono senza la minima conoscenza del mondo esterno. Com’è opprimente venire sepolti vivi in questo vasto sistema di canyon! O forse sono più felici [di noi] proprio per questo?»

Impietoso, invece, l’avventuriero russo Peter Goullart che, nel suo The Forgotten Kingdom (1955), descriveva la popolazione Mosuo incontrata a Lijiang criticandone i comportamenti promiscui in una testimonianza costruita più sul sentito dire che su una vera esperienza personale.

Nella società Mosuo i pezzi sono disposti sulla scacchiera in maniera differente. Uomini e donne si collocano in posizioni diverse da quelle a cui siamo abituati: le donne hanno tutti i privilegi, mentre gli uomini sono privi anche dei più elementari. E una variante del gioco, un copione diverso per il dramma-commedia-tragedia dei sessi. A Loshui «il sesso femminile non è mai debole». Ogni persona di un gruppo famigliare possiede il nome della madre del clan, e i nomi, così come la proprietà della casa e della terra, sono esclusivamente ereditati dalla stirpe femminile.

Si narra che anticamente, quando era ancora in vigore il sistema feudale, una ristretta aristocrazia patriarcale abbia imposto alla popolazione contadina il matriarcato per mantenere il proprio lignaggio puro da contaminazioni plebee. Progressivamente la figura maschile è stata relegata ad un ruolo di contorno. Oggi le donne si occupano della gestione e dell’economia famigliare, gli uomini, di contro, svolgono lavori pesanti e umili prendono sporadicamente grandi decisioni, pur detenendo il potere politico. Fattore quest’ultimo che ha indotto gli antropologi a parlare di cultura matrilineare più che di matriarcato puro.

«Credo che quando una donna vive in una società in cui mantiene il cognome di sua madre, in cui è l’unica a detenere denaro e proprietà, ogni guadagno e il comando, ecco, questa donna sicura del proprio ruolo può concedersi anche di svolgere alcune funzioni che storicamente non ha mai disdegnato, senza che questo la faccia sentire sottomessa” commenta Coler “Credo che nelle società matriarcali le donne diventino più femminili. Detengono il potere e sanno chiaramente di non voler diventare uomini».

Il rapporto tra i sessi poggia un legame amoroso chiamato axia (in mandarino zouhun: «matrimonio ambulante») – libertino agli occhi occidentali- in cui incontri a tarda ora nell’abitazione della donna sfociano nella passione di una notte o nell’amore di tutta una vita. Al sorgere del sole l’uomo torna presso la propria casa, salvo poi, se la cosa è andata bene, fare ancora visita alla sua donna: ognuno rimane legato al proprio nucleo famigliare originario. Questo consente ai Mosuo la libertà di innamorarsi senza correre il rischio, nel caso in cui le cose vadano male, di perdere insieme amore e famiglia. «La gelosia nasce solamente quando c’è innamoramento. Quando invece una donna o un uomo Mosuo vivono un periodo di relazioni libere, nessuno si sente il padrone di nessuno» ci spiega Coler.

Il padre non ha responsabilità verso i figli che vengono cresciuti nel clan materno da nonne, sorelle e zii vari. Questo sistema crea una forte stabilità in quanto, morto un genitore, sarà la famiglia allargata a prendersi cura del bambino. E permette di mantenere un equilibrio tra i sessi, a differenza di tutte quelle culture che impongono a una donna maritata di trasferirsi presso la famiglia del coniuge con il risultato che, se una coppia ha avuto soltanto figlie femmine, non avrà nessuno a farle da «bastone della vecchiaia».

In una Cina che si trova a fare i conti con un gap di genere causato da trentanni di politica del figlio unico (tra un quindicennio 30 milioni di uomini potrebbero non riuscire a trovare una compagna) i Mosuo sfidano il modello confuciano, rigorosamente patriarcale, proponendo una formula alternativa che potrebbe essere la risoluzione di tanti problemi.

Come fatto notare ingenuamente dal capo di Luoshui -autorità politica e quindi maschio: gli Han, l’etnia maggioritaria in Cina, «lasciano la propria casa per sposarsi, devono spartire la proprietà tra i figli, che a loro volta la condividono con i membri di altre famiglie, ovvero con i loro coniugi. E questo genera sempre conflitti, perché ogni membro della coppia cerca di far pendere la bilancia a favore della propria famiglia, e alla lunga tutti si dimenticano dei propri anziani».

Proprio al problema della tutela dei parenti più anziani Pechino ha cercato di ovviare recentemente trasformando la «pietà filiale», predicata da Confucio, in legge. Dal primo luglio, infatti, i giovani sono tenuti a prestare attenzione ai bisogni psicologici dei vecchi genitori e a far loro visita di frequente, -non è stato detto ufficialmente ma molti lo pensano- per sopperire alle lacune di un welfare inefficiente che difficilmente riuscirà a gestire i 202 milioni di anziani previsti entro la fine dell’anno.
Una cosa impensabile per i Mosuo che, a onor del vero, partono avvantaggiati potendo avere fino a tre figli, grazie alle politiche privilegiate sulle nascite riservate dal governo centrale alle minoranze etniche.

Così mentre il resto del Paese si barcamena nel tentativo di squarciare il velo di pudore che impedisce ancora una visione del sesso matura e consapevole (con esiti a dir poco grotteschi, come nel caso del un video sull’educazione sessuale divenuto virale sul web http://i.youku.com/u/UMTAwODc2OTQ4), a Luoshui l’atto amoroso continua a mantenere quel carattere giocoso e spensierato che lo ha contraddistinto per secoli. E mentre nel resto del Paese le autorità devono tirare per la giacca i figli inadempienti verso i propri vetusti parenti, in quell’angolo remoto del Regno di Mezzo, nessuno mai in vecchiaia si sente abbandonato. Omicidi e stupri sono una rarità, «la violenza in ogni sua manifestazione genera riprovazione e qualsiasi reazione sproporzionata è malvista».

Per quanto sia stato soggetto a facili idealizzazioni, questo microcosmo felice non sembra proprio appartenere a quella Cina nota alle cronache recenti per accoltellamenti nei corridoi delle scuole e degli ospedali, e dove abusi e discriminazioni fanno parte del vivere quotidiano di molte donne.

L’idillio Mosuo rischiò di venire spezzato quando sulla Repubblica popolare si stagliò la figura di un gerarca maschio, padre e capo di un miliardo di “compagni”. A Mao la diversità Mosuo non piaceva. Nel 1950 le autorità dello Yunnan stabilirono che, con le loro relazioni amorose, perpetuavano una pratica primitiva, divenuta illegale un anno prima con la fondazione della Repubblica popolare. La Rivoluzione comunista aveva bisogno di braccia forti, non di uomini infiacchiti dalle nottate passate sotto le lenzuola con le loro donne.

Sei anni più tardi, in piena riforma agraria, la distribuzione delle terre in base alla residenza dell’uomo si presentava come un primo affondo al sistema matrilineare. La proposta era allettante: chi avesse accettato di separarsi dalla madre per fondare una famiglia come quelle che esistevano nel resto della Cina, sarebbe divenuto titolare delle terre che coltivava. Eppure non fu pervenuta neppure una richiesta.

Così nel 1958, mentre il Paese cercava di compiere il suo Grande balzo in avanti, nella regione furono inviati alcuni gruppi di lavoro con lo scopo di istituire un regime monogamico socialista. I primi matrimoni crearono caos tra le famiglie. A puntare i piedi furono proprio le matriarche addolorate nel vedere le proprie figlie abbandonare la casa per andare a vivere con un “estraneo”. Nel 1966 la Rivoluzione Culturale spazzava via i quattro vincoli con il passato: le vecchie consuetudini, i vecchi costumi, la vecchia moralità e la vecchia cultura.

«Oltre che al potere politico, a quello di clan e all’autorità religiosa, la donna e sottoposta al potere dell’uomo (potestà maritale). Questi quattro poteri rispecchiano l’insieme dell’ideologia e del sistema feudale-patriarcale e sono i quattro grossi vincoli che tengono avvinto il popolo cinese, e in particolare i contadini», si legge nel Libretto rosso di Mao.

Il diktat di Pechino sfociò in un incomprensibile paradosso. Mentre nel resto del Paese si cercava di abolire la consuetudine dei matrimoni combinati, i Mosuo venivano costretti a sposarsi e a dare vita ad un nucleo famigliare che la loro tradizione non riconosceva. Ma il trambusto «durò soltanto per il tempo in cui poté durare la pressione del regime. Non appena gli inviati di Mao se ne andarono, come in un colossale gioco infantile ciascuno ritornò al proprio posto. Le donne ricominciarono a metter su casa con i propri figli e gli uomini abbandonarono un ruolo che sentivano estraneo per riprendere il loro posto nel luogo a cui in realtà appartenevano: la casa della madre». Non solo. E’ capitato anche che funzionari dislocati nelle selvagge terre di confine abbiano finito per cedere alle grazie delle donne Mosuo, integrandosi nel sistema. D’altra parte, si sa, «le montagne sono alte e l’Imperatore è lontano», recita un proverbio cinese.

Dopo aver resistito alle bordate del governo, per un destino beffardo, oggi il Regno delle donne si sta lentamente sgretolando sotto i colpi di un falso amico. La modernizzazione cinese è arrivata anche a Luoshui, e con lei la figura di una donna diversa. Giovani ragazze lasciano il lago Lugu per costruirsi una nuova vita nella capitale o addirittura oltreconfine; alcune tornano sui loro passi, deluse per quel sistema patriarcale adocchiato alla tv. Quanto ai maschi, le ghiotte opportunità di lavoro nei paradisi turistici limitrofi di Lijiang, Lhasa, Kunming e Chengdu li spinge sempre più ad abbandonare i villaggi d’origine per fare affari lontano da casa, mentre il mito dell’axia viene deturpato da false donne Mosuo che dispensano sesso a pagamento nei bordelli spuntati come funghi nella zona.

Senza nemmeno alzare un dito, Pechino potrebbe presto riuscire a liberarsi di un’alterità che ha saputo spingersi oltre i confini ufficiali senza impensierire il governo con velleità indipendentiste, come avvenuto invece nelle regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang.

«Ufficialmente il governo cinese non fa pressioni sui Mosuo affinché abbandonino il matriarcato» prosegue Coler «In effetti, non ne ha bisogno perché la costruzione di un’autostrada e il conseguente arrivo nella regione di soldi e investimenti porteranno prima o poi al risultato voluto. Il business del matriarcato finirà assieme al matriarcato».