Arriva improvvisa la notizia della morte di Carlo Mazzacurati, il regista del “Toro” con cui vinse il Leone d’argento a Venezia nel 1994, “Vesna va veloce”, “La lingua del santo”. Era ammalato da tempo, leggiamo nei primi lanci, lui che ancora apparteneva alla generazione dei «giovani» registi italiani, classe ’56. Padovano, aveva tradotto in cinema un nordest tanto pieno di interrogativi quanto privo di prospettive, anche quando sembrava che proprio quella fosse la scena trainante dell’Italia. Giovane cinema perché nato dall’esperienza dei cineclub, collaboratore di uno dei maghi di questi luoghi non ancora ben valorizzati, Piero Tortolina che da Cinema Uno di Padova creava una inestricabile rete di appassionati di cinema. Dopo aver frequentato il Dams di Bologna gira grazie a un’eredità il lungometraggio Vagabondi con cui vince il premio Gaumont, la casa che poi sparisce dalla scena e così la distribuzione del film è bloccata. A Roma lavora al progetto Notte italianamesso in piedi produttivamente da Nanni Moretti (e sarà poi chiamato spesso come attore dei suoi film Palombella rossa, Caro diario, Il Caimano) firmandone la regia e vincendo il Globo d’oro come miglior regista esordiente dell’87. E in questi trent’anni e più tutto è cambiato nel nostro paese, in qualche modo Mazzacurati ha anticipato qualcosa di quello che sarebbe accaduto quando con “Il Toro” interpretato da un impressionante Abatantuono cominciava a guardare dal Veneto verso tutto quello scenario ancora sconosciuto costituito dai paesi del’Europa dell’est che si sarebbero affollati di piccoli imprenditori a caccia di affari. Non potevamo credere che il suo sguardo non vedesse che oltre quei confini c’era una grande tradizione, storia e tanto cinema, mentre lui mostrava solo con grande abilità il vuoto. Infatti anticipava proprio il salto nel vuoto che si preparavano a fare tanti industriali veneti.

Un cambiamento totale rispetto a quei tentativi del “Toro” e ancora prima a Notte italiana che suggeriva ancora, attraverso la protagonista in maniera sommessa (come solo era possibile fare in Italia) il tema del terrorismo, lo vediamo nei film più recenti. Prove generali di contatti più corposi con un altro paese dell’est, la Cecoslovacchia, in “Vesna va veloce” del ’96, incontro tra uno dei pochi operai avvistati sui nostri schermi (Antonio Albanese sottratto alla tv) e una prostituta senza esperienza, anche in questo caso le avvisaglie di una più ampia problematica che si sarebbe sviluppata solo in seguito. Come il lavoro problematico dei protagonisti di “La lingua del santo”, con i suoi personaggi da bar (ed era solo il 2000). Fino ad arrivare all’affollamento sempre più denso dei nuovi cittadini provenienti da tutti i paesi dell’est e del sud in “La giusta distanza” del 2007. Qui la protagonista (Valentina Lodovini), la supplente Mara accetta la corte del meccanico tunisino, in una descrizione della provincia dove corre sottilmente un atteggiamento morale che è poi la caratteristica della regia di Mazzacurati che lo avvicina in qualche modo al cinema di Olmi (una moralità più di regia che di intenti, lui sosteneva di non avere un atteggiamento moralistico), un cinema fatto «altrove», lontano dai centri affaristici del cinema.

Il suo cinema è tutto un mostrare i suoi luoghi, prima che personaggi e tradizioni, con sapiente discrezione, con l’eccezione di spostarsi su per i monti quando incontra per i suoi documentari-ritratti Mario Rigoni Stern (di Asiago), Andrea Zanzotto (Dietro il paesaggio…), Luigi Meneghello, vicentino. Nel 2011 è stato nominato primo presidente della nuova fondazione Cineteca di Bologna rientrando così nell’ambito della passione per il cinema più estremo (basta andarsi a guardare le scoperte, i programmi colossali della Cineteca). Chi conosce i film che faceva circolare Tortolina saprà che le deserte pianure venete di Mazzacurati, i silenzi dei suoi attori, sono affollati del ricordo dei musical, delle avventure, dei noir e di tutto il cinema.