In questi drammatici giorni, in cui prende il sopravvento il timore per l’estrema precarietà delle nostre esistenze, da più parti si punta il dito contro il regionalismo o almeno contro «questo» regionalismo: quello della competizione tra territori o tra regioni e Stato. Invece di cooperare lealmente nel perseguire l’interesse nazionale, i governanti nel loro insieme mettono in scena la farsa di chi vuole accaparrarsi un margine di consenso a discapito degli altri, senza neanche capire bene in quale direzione quel consenso vada ricercato.

Quale la causa di questo stato di cose?

C’è chi dice che sia l’ente Regione in sé (Angelo D’Orsi), molti che sia responsabilità della revisione del Titolo V approvata dal centrosinistra nel 2001 ma chiaramente ispirata alle posizioni della allora Lega Nord e dai suoi sodali (cfr. Francesco Pallante). Quella del 2001 in effetti è una riforma accusata giustamente da Gianni Ferrara di essere un concentrato di insipienza giuridica, oltre che politica. La Corte costituzionale ha dovuto esercitare un ruolo molto attivo per contenere quel testo nella trama complessiva della Costituzione che impone solidarietà, cooperazione, consapevolezza dell’interdipendenza tra tutti gli enti della Repubblica.

Due enormi ostacoli, però, hanno impedito che l’unità nazionale potesse contare su relazioni cooperative tra Stato e Regioni.

Il primo ostacolo è la revisione del 1999 che ha introdotto non solo l’elezione diretta del Presidente della Regione, ma un rapporto di sudditanza dei Consigli regionali nei confronti di quelli che, infatti, si percepiscono come e si comportano da «governatori». Revisione approvata da tutto l’arco costituzionale, usando l’argomento della presunta insostenibilità dei «ribaltini» regionali, che fanno sorridere rispetto a un paese che ora è perennemente in campagna elettorale per il rinnovo di qualche Regione che potrebbe mettere in discussione le maggioranze al Governo.

È lì che si annida il problema del nefasto protagonismo dei Presidenti di Regione, forti della concentrazione di potere nelle loro mani e della loro sovraesposizione mediatica; è lì che entra definitivamente in crisi il sistema politico regionale, anticipando la crisi di rappresentatività che affligge le istituzioni nazionali.

Il secondo ostacolo al perseguimento dell’interesse nazionale in modo collaborativo, però, investe proprio le politiche che possono essere perseguite per tutelare quell’interesse. Ciò che ha indirizzato il regionalismo verso la pura competizione, che si spinge fino ai margini della secessione, sono gli imperativi neoliberali assistiti da regole cosiddette di austerity. La dismissione del pubblico e dei diritti sociali che questo deve assicurare è passata non solo per un’enorme privatizzazione di infrastrutture strategiche, ma anche per il definanziamento statale delle Regioni e degli enti locali che erogano i servizi nonché per il mantra dell’«accorpamento» di qualunque cosa in un paese con larghe aree interne.

La situazione attuale, quindi, non può essere addebitata solo alle Regioni e non a tutte le Regioni nello stesso modo.

Già ora lo Stato può esercitare potere sostitutivo delle Regioni (art. 120, comma 2, Cost.), già ora la legge sul Servizio sanitario nazionale impone (non consente) al Ministro della salute di intervenire, già ora lo Stato può attrarre a sé competenze regionali per la dimensione nazionale degli interessi da tutelare. A ognuno la sua responsabilità. Imperdonabile sicuramente sarebbe quella di procedere al regionalismo differenziato durante una pandemia che mette a nudo i limiti del modello attuale.

La soluzione a questa crisi non è l’eliminazione del Parlamento o delle Regioni. La soluzione va rintracciata nella ripoliticizzazione delle forme della convivenza a qualunque dimensione. Non esistono scorciatoie.