«I’m giving you a warning, Don’t take it for granted, no Yes I’m giving you a warning, warning Please don’t take it for granted, no».
Nonostante la linea telefonica intercontinentale non sia delle migliori, la voce non ne risente affatto. È potente ed espressiva come sempre, mentre sale e scende lungo i versi di Warning Warning. E al termine del canto, dopo un attimo di silenzio, la risata generosa di Frederick «Toots» Hibbert è una firma soddisfatta dell’improvvisazione non prevista di cui lo scrivente ha avuto la ventura di essere testimone uditivo. «Sai, con questa canzone ti sto dando un consiglio, perché non devi dare mai nulla per scontato. Sto dicendo che c’è un modo per aiutare gli altri a salvarsi. Per cercare di vivere bene». Serafico e con le idee chiare, l’artista giamaicano così raccontava qualche settimana fa ad Alias, uno dei brani migliori di Got to Be tough, album uscito il 28 agosto via Trojan Jamaica/Bmg. Mr. Hibbert è scomparso lo scorso 11 settembre presso lo University Hospital of the West Indies di Kingston, in Giamaica, a seguito delle complicanze dovute all’infezione da coronavirus. Il cordoglio è stato globale: la notizia ha fatto velocemente il giro del mondo attraverso social e testate giornalistiche. Ancor più diretta e immediata è stata la risposta del pubblico attraverso i canali digitali di distribuzione musicale: su iTunes nella Top Reggae Albums solo tre giorni fa figuravano ben quattro album di Hibbert fra i primi dieci della classifica e due brani in quella dei singoli, mentre su Apple Music nelle ventiquattro ore successive al decesso l’intero catalogo del musicista ha avuto un incremento di oltre il mille percento.

ICONA
Il tutto arriva a conferma di quanto il suo nome fosse universalmente noto. L’aneddotica racconta di come tra i suoi innumerevoli ammiratori spiccassero al contempo Obama, che lo incluse in una playlist nel 2019, e la figlia di George Bush, Jenna. Da lui hanno tratto ispirazione tra i tanti, gente come Clash e Specials. Una figura iconica, monumentale, per l’intera musica reggae e non solo. E proprio a lui si deve la definizione del genere per come lo conosciamo: la parola reggae, come egli stesso raccontava, deriva da un lapsus che ebbe in sala d’incisione durante le prove di una canzone che sarebbe poi divenuta il singolo Do the Reggay del 1968. Per lui e i Maytals, l’intenzione era semplicemente di dare un nome a un passo di danza allora in voga. Accadde molto di più: dalla stortura di «streggae», slang giamaicano usato per indicare chi vestiva alla buona, si arrivò all’ufficializzazione di un suono, una cultura musicale, un’identità sociale. Hibbert era già in giro da qualche anno assieme ai sodali Henry «Railegh» Gordon e Nathaniel «Jerry» Mathias con cui aveva messo in piedi i Maytals. Le armonie vocali espresse a suon di rocksteady e ska erano affar loro già da inizio anni Sessanta, ma bisognerà attendere il 1966 per il primo giro di notorietà, grazie al leggendario singolo Bam Bam con cui si aggiudicò il concorso Jamaica Festival Song, circostanza che si ripeterà in altre due occasioni con Sweet and Dandy nel 1969 e Pomps and Pride nel 1972. E sempre nel 1966 accadde uno degli eventi che deviarono per sempre il corso delle cose per Hibbert, l’arresto per una presunta detenzione di cannabis. Un provvedimento da lui sempre contestato perché, a suo dire, fu costruito ad arte. Ma che gli permise di elaborare quello che divenne uno dei suoi singoli di maggiore successo, 54-46 Was My Number. Gli anni e gli accadimenti presero un ritmo vorticoso, con alcuni momenti salienti a costellare volta dopo volta la progressiva ascesa: nel 1970 con Monkey Man è uno dei protagonisti del Caribbean Music Festival che a Wembley venne immortalato dal regista di Trinidad Horace Ové, nel seminale film documentario Reggae. Era il preludio alla ben più nota pellicola che diede visibilità planetaria all’intera scena musicale giamaicana, la meravigliosa The Harder They Come, dove il protagonista Ivan, impersonato da Jimmy Cliff, giunge a Kingston dalle aree rurali del paese, esattamente come Toots da giovane, per trovare parziale consacrazione dei suoi sogni proprio quando entra in sala d’incisione per la prima volta, rimanendo ammaliato dai Maytals che stanno provando la loro Sweet and Dandy. Anche Pressure Drop sarà presente in quel lungometraggio, mentre da lì a poco, nel 1972, sarebbe giunta l’ora di Funky Kingston. Come il suo approccio musicale palesa in modo chiaro e netto, sin da subito Toots non si blinda in una sola forma sonora: già la progressione giovanile verso il reggae ne è testimonianza edancor più lo dimostra il costante spostamento verso le altre forme della musica african american: il funk e il soul sono continua fonte di ispirazione e assumono una maggiore predominanza a seconda del progetto discografico del momento.

EVOLUZIONI
Mai fermo e sedimentato, sempre estremamente creativo, come subito dopo la sua morte ha ricordato il suo vecchio amico Jimmy Cliff: seguire le evoluzioni sonore di Hibbert, significa quindi capire a fondo la quotidianità in cui lui e le altre stelle del reggae sono cresciuti: «Da ragazzo per me era divertente e al contempo molto importante ascoltare la radio. In Giamaica abbiamo la Jbc (Jamaica Broadcasting Corporation) e seguivo i dj in onda. Ho sempre acceso la radio, anche quando ero in prigione e ho continuato a farlo, ascoltando emittenti da tutto il mondo. Da noi poi arrivavano anche i suoni delle radio di New Orleans, che è una città che ho sempre amato. Infatti nei primi anni la nostra musica era piena di reggae e al contempo, di tanta ispirazione che proveniva da New Orleans, un posto che aveva un sacco di ritmi dal sapore giamaicano e delle gran belle vibrazioni, con tanti musicisti di valore».
L’amore per le voci guida del soul, in primis quella di Otis Redding di cui fece sua la canzone (I’ve Got) Dreams to Remember, ne è l’esempio migliore. Stessa prassi adottò anche con un classico di John Denver come Take Me Home Country Roads e con I Can’t Stand the Rain di Ann Peebles che mutò in Love in the Rain nel disco Toots in Memphis del 1987, in cui in veste di produttore e pianista risalta la presenza dell’icona Jim Dickinson. Che contribuì in modo sostanziale al lavoro d’incisione, dove spicca la presenza dei Memphis Horns. Per Toots fu un lavoro rilevante, in quanto riassunse e consolidò al meglio le intenzioni di dedicarsi appieno al soul che tanto amava. E mentre alla chitarra si distingueva uno strepitoso Eddie Hinton, salvato temporaneamente da Dickinson dalla strada dove viveva oramai in totale povertà, Hibbert tracciava linee musicali clamorose. In quella seduta, tra le varie perle contenute, brilla Freedom Train, un suo classico che non ha mancato di inserire anche nel recente Got to Be Tough, di cui così ci racconta la genesi e l’anima: «Quando le cose intorno a te sembrano impazzire, devi diventare tosto per superare le difficoltà. Devi farti furbo. Il disco contiene questa attitudine. L’ho pensato, composto, suonato e ne ho curato gli arrangiamenti. Certo, la band è presente quando lo suoniamo dal vivo, ma io mi sono dedicato a tutto. Le canzoni parlano per me. Prendi Drop off Head: incita a non mollare, a tenere duro e non lasciarsi abbattere. Ti dico di seguirmi e di non arrenderti. E in Struggle, a tal proposito, parlo delle persone che devono lottare costantemente, che non trovano un lavoro. Dobbiamo farci forza perché le cose sono cambiate. E lo canto in Just Brutal dove racconto di come è diventato il mondo: chiesa contro chiesa, regno contro regno. E tutto ciò che vedi è brutale, e abbiamo l’obbligo di denunciarlo».