Oggi in corte di Cassazione si riunisce l’ufficio centrale per il referendum, deve esaminare la regolarità della richiesta presentata da 71 senatori che chiedono di dare l’ultima parola sulla riduzione dei parlamentari agli elettori. Salvo sorprese clamorose – le firme sono già state autenticate da un verbale del senato – arriverà un via libera al referendum. Anche perché le firme depositate sono in eccedenza rispetto al minimo richiesto – se poi ci fosse bisogno di sanare qualche irregolarità si potrebbe fare in cinque-sette giorni. Dopo di che toccherà al governo e al capo dello stato decidere la data in cui convocare le urne. Ieri Di Maio nel discorso dell’addio ha lasciato cadere il mese in cui si voterà: «Abbiamo da vincere il referendum costituzionale a maggio», ha detto.

La data che sta circolando nelle riflessioni di governo è in effetti quella di domenica 24 maggio. La convocazione del referendum la fa il presidente della Repubblica con un suo decreto «su deliberazione del Consiglio dei ministri». In pratica palazzo Chigi e il Quirinale hanno ampia facoltà di gestire i tempi della chiamata alle urne, perché (legge 352 del 1970) il Consiglio dei ministri che decide la data va convocato entro sessanta giorni dall’ordinanza di ammissione dell’ufficio centrale presso la Cassazione. E in quella sede il governo può scegliere una domenica tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo. A conti fatti c’è la possibilità di scegliere una data tra gli ultimi giorni di marzo e la prima domenica di giugno.

Due generi di valutazioni possono influenzare la scelta della data. Valutazioni tecniche hanno a che vedere con la necessità di concedere un congruo tempo per la campagna referendaria: è in fondo quello che chiedono i promotori del referendum, anche per recuperare un dibattito che non c’è stato durante la rapida approvazione della riforma costituzionale in parlamento. Una questione tecnica è poi l’esigenza di evitare l’incrocio del referendum (per quanto sia senza quorum in questo caso) con il voto per le regionali (quattro regioni) che dovrebbe tenersi a giugno.

La valutazione politica è invece riferita all’effetto di stabilizzazione che il referendum può avere sul governo. La – generalmente prevista – vittoria dei sì chiuderebbe la finestra in cui – teoricamente – è ancora possibile andare a votare per eleggere un parlamento con i vecchi numeri (945 deputati e senatori e non 600). Raffreddando in questo modo eventuali tentazioni dei partiti della maggioranza di andare al voto anticipato. Anche perché la promulgazione della riforma costituzionale porterebbe con sé l’obbligo per il governo (la famosa “delega Calderoli”) di disegnare i nuovi collegi entro 60 giorni. Impossibile andare a votare prima dell’autunno, e in autunno, come sempre, c’è la legge di bilancio che viene prima di tutto. E così dalla prossima settimana, a risultato delle regionali in Emilia Romagna acquisito, il dossier data del referendum diventerà centrale per il governo.