Quella del governo pentaleghista è una «politica attiva del lavoro» ispirata al modello inglese dello «universal credit» che accorpa sei ammortizzatori sociali, così come il «reddito» all’italiana dovrebbe accorpare, tra gli altri, i sussidi Naspi, Asdi, oltre che il reddito di inclusione sociale («ReI») creato dai governi Renzi-Gentiloni (Pd). Si sta delineando un sistema di «workfare», come tanti ne esistono ormai in tutta Europa, e non solo, che mira alla formazione, al reinserimento e alla riqualificazione di precari e disoccupati tramite un sistema premio-punitivo centrato sul modello pubblico dei centri per l’impiego (ci vorranno due anni, dicono, e 2,1 miliardi di investimento) che gestiranno la mobilitazione della forza lavoro in cambio di un sussidio massimo (780 euro), decrescente, a tempo e condizionato all’obbligo di accettare un’occupazione (su tre proposte), prima nel territorio di residenza e, successivamente, nell’intero paese. Così configurato, questo sistema può diventare uno straordinario volano per la produzione di «lavoretti» a mezzo «lavoretti».

È quanto emerso dalle parole pronunciate dal presidente del Consiglio Conte alle Camere. Conte si è detto «dispiaciuto» per il modo in cui questa «riforma» è stata «rappresentata»: «Una misura di assistenzialismo sociale». Ieri, durante la fiducia al Senato, in una replica Conte ha suggerito la lettura del «contratto di governo» per vedere «chiaramente» che «è una misura orientata al reinserimento nel mondo del lavoro», legata alla «riforma dei centri d’impiego». «Altrimenti non funzionerà e non raggiungerà l’obiettivo che ci siamo prefissi» ha detto. Va ricordato che le responsabilità dell’equivoco sul «reddito di cittadinanza» è, innanzitutto, del Movimento 5 Stelle che ha scelto la dizione fuorviante di «reddito di cittadinanza» di cui oggi Conte lamenta i limiti. Senza contare che, in teoria, tale reddito non dovrebbe essere concepito come una misura di assistenzialismo, ma come un’erogazione universalistica di risorse riservata ai “cittadini”. Il problema è semmai quello di allargarlo a tutti i residenti, e quindi agli stranieri, perlomeno quelli al di sotto di una certa soglia di reddito per garantire il diritto di esistenza di tutti. Una discussione fantascientifica rispetto al piano in atto.

«Il beneficio – ha detto Conte alla Camera il 5 giugno – verrà commisurato alla composizione del nucleo familiare». Dunque, non più su base individuale alla luce della composizione familiare, ma su base familiare. In pratica come il «ReI» che potrebbe essere superato. È preferibile restare in attesa di ulteriori precisazioni. Se fosse confermato significa che l’intero nucleo familiare sarà condizionato all’osservanza delle regole stringenti già in vigore. Se uno dei componenti non rispetterà le ingiunzioni, l’intera famiglia rischia di perdere il sussidio. Il «reddito» può anche trasformarsi in uno strumento di controllo sociale.

Conte ha confermato la politica dei due tempi: prima la riforma dei centri per l’impiego, poi il «reddito». Al netto dell’effettiva realizzabilità di questo sistema, i «centri per l’impiego» dovrebbero soddisfare una delle illusioni neoliberali del mercato del lavoro: «sollecitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro con la massima efficienza e celerità possibili» ha detto Conte. Nella maggioranza sembra mancare l’accordo sui «due tempi», una politica di solito fallimentare. Vito Crimi (M5s) ieri al Senato ha sostenuto un’altra versione: «Il reddito di cittadinanza va avviato contemporaneamente alla riforma fiscale per aiutare le aziende e le fasce più povere della società». Si suppone insieme alla riforma dei centri per l’impiego. Dunque, spostamento della ricchezza verso ricchi e benestanti, messa al lavoro dei poveri, precari e disoccupati. Si chiama «populismo», si legge «neoliberismo».