I processi di disinflazione e di deflazione in corso descrivono una fase di passaggio nel vigente sistema economico. Negli anni Trenta inflazione e disoccupazione scossero le fondamenta del capitalismo. Poi le politiche economiche keynesiane e il secondo conflitto mondiale condussero al boom a partire dagli anni Cinquanta, e l’inflazione tornò a essere considerata uno dei principali problemi solo a partire dalla metà degli anni Settanta. Giunse così la controrivoluzione neoliberista che, facendo pagare un prezzo salato alle classi popolari, riuscì a contenere nuovamente l’inflazione.

Da quest’altalena sviluppatasi lungo parecchi decenni emersero paure e spauracchi tutt’ora in voga sull’inflazione, come dimostrano le attuali classi dirigenti tedesche. A ben vedere, nel caso teutonico non si tratta di un semplice riflesso condizionato da ragioni storiche, che difficilmente durano senza un ancoraggio al presente, ma di una certa preferenza per una inflazione molto contenuta, in quanto l’invecchiamento della popolazione e dei suoi investimenti finanziari sarebbe minato da una ripresa consistente dell’inflazione.

Oggi i modelli teorici tradizionali non riescono più a leggere la realtà. Bassa disoccupazione, almeno negli Usa e in Germania, e politiche monetarie ultraespansive, praticate ovunque, non fanno tornare un po’ di inflazione. I prezzi, insomma, anche al netto di quelli energetici, non salgono, anzi in taluni casi diminuiscono. Ciò comporta il tendenziale rinvio di consumi e investimenti per tutti gli attori in campo, dando vita a un cortocircuito da cui è difficile uscire. Uno studio di Morgan Stanley calcola che il 70% dell’economia mondiale soffre di inflazione troppo bassa. La dottrina economica prevede che avvenga il contrario. La spiegazione di tale sfasatura tra teoria e pratica è oggetto di controversie e, come spesso accade, è frutto di molteplici fattori.

Intervengono, infatti, in modo simultaneo elementi che appaiono congiunturali, come il prezzo delle materie prime, la crisi degli emergenti o le modeste aspettative di ripresa, e altri strutturali, come un mercato del lavoro precarizzato e sempre più asfittico, l’innovazione tecnologica, l’invecchiamento demografico. Il tutto dentro un quadro globale. In realtà persino quelle che appaiono come cause congiunturali rimandano a spinte più profonde che sembrano tutt’altro che accidentali, quali la volatilità dei prezzi delle materie prime o la crisi finanziaria e produttiva che coinvolge i paesi asiatici.

Ma soffermandoci sulle cause essenziali i fattori in gioco appaiono piuttosto complessi. Intanto esistono processi di digitalizzazione della produzione e della società intera che spingono verso il basso i prezzi attraverso l’automazione, l’aumento di produttività, seppur non in tutti i comparti, e la crescente commercializzazione on line. Il profilo reddituale dei nuovi occupati, poi, è sempre più debole e, per quanto consenta una riduzione della disoccupazione ufficiale, non favorisce la crescita dei consumi. Infine la parabola dell’invecchiamento della popolazione a livello mondiale, compresa quella dei paesi emergenti, riduce la quota degli attivi, cioè di coloro che possiedono generalmente una maggiore propensione al consumo. Ai prezzi anemici corrisponde una crescita stentata.

Tutte queste dinamiche si auto-alimentano con la globalizzazione, la quale innesca una gara al ribasso generalizzata sui costi. Sembrano fattori pronti a creare una tempesta perfetta che politiche monetarie ormai in corso da anni e controriforme strutturali condotte da più tempo ancora non riescono a placare. Basti pensare alla quantità di denaro immesso in questi anni (stimato complessivamente in aumento del 70% dal 2008). Anche attraverso il rebus dell’inflazione, dunque, sembra confermata una fase prevedibilmente lunga di ristagnazione.