Il reato negato esiste ed è utile
Tortura A tre anni e mezzo dall’introduzione, nel 2017, del reato di tortura nel codice penale, la condanna di Ferrara è dunque, al di là delle considerazioni specifiche, un’occasione per un primo, provvisorio bilancio
Tortura A tre anni e mezzo dall’introduzione, nel 2017, del reato di tortura nel codice penale, la condanna di Ferrara è dunque, al di là delle considerazioni specifiche, un’occasione per un primo, provvisorio bilancio
Davvero una svolta per l’Italia. Un agente della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Ferrara è stato condannato venerdì scorso, 15 gennaio, per tortura aggravata in quanto commessa da un pubblico ufficiale.
Finora erano state inflitte condanne per tortura «ordinaria», commessa da privati (da una banda di giovani che ha preso di mira una persona anziana). E per tortura erano stati condannati dal Tribunale di Messina due egiziani e un guineano colpevoli di maltrattamenti nei confronti dei migranti trattenuti in una campo di detenzione libico.
Di tortura del pubblico ufficiale sono accusati i protagonisti di vicende avvenute in diverse altre carceri italiane (la lista è piuttosto lunga), ma i procedimenti sono ancora in corso.
A tre anni e mezzo dall’introduzione, nel 2017, del reato di tortura nel codice penale, la condanna di Ferrara è dunque, al di là delle considerazioni specifiche, un’occasione per un primo, provvisorio bilancio.
La battaglia per introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento aveva un valore sia politico sia giuridico e pratico: politico perché andava respinta la tesi, infondata e mistificatoria, secondo la quale in Italia un problema di tortura non si pone e che una nuova fattispecie penale non sarebbe servita; pratico perché nei trent’anni trascorsi tra la ratifica italiana della Convenzione contro la tortura e l’approvazione delle nuova legge, gli episodi di tortura, che non sono certo mancati, non sono stati mai puniti.
La tortura non è stata punita neppure quando, a Genova, nel 2001, è stata praticata in modo sistematico. In quella come in altre occasioni, i giudici hanno accertato i fatti e li hanno definiti «tortura». Di fronte alla mancanza di un reato specifico, però, si sono dovuti arrangiare: hanno incriminato i responsabili per reati generici (che il codice metteva loro a disposizione), punibili con pene lievi. E quando le pene sono lievi i reati si prescrivono in poco tempo e i responsabili restano impuniti.
È per questo, per l’impunità, oltre che per le torture in sé, che l’Italia è stata condannata per i fatti di Genova dalla Corte di Strasburgo. Ed è stata la necessità di eseguire tali condanne che ha finalmente convinto la maggioranza del parlamentari a legiferare.
L’approvazione della nuova legge è stata preceduta peraltro da un dibattito vivace fra tre schieramenti: i contrari all’introduzione del nuovo reato, convinti, indipendentemente dalla sua definizione, che questo fosse contro le forze di polizia; il «fuoco amico»: coloro che erano convinti che l’inadeguatezza della definizione, peraltro frutto di un compromesso faticoso, la rendesse controproducente, al punto da preferire la non approvazione della legge; infine, i favorevoli i quali, pur condividendo un giudizio critico sulla definizione, ritenevano che fosse «meglio di niente».
Oltre a sottolineare l’importanza di porre fine alla rimozione politica della tortura, sul piano giuridico questi facevano affidamento sul fatto che i giudici avrebbero potuto correggere alcuni dei suoi difetti, attraverso un’interpretazione conforme al diritto internazionale.
Si sono espresse in questo senso, fra le associazioni, Amnesty International, le cui richieste di adeguare l’ordinamento alla Convenzione contro la tortura risalgono ai primi anni novanta, e Antigone; fra le istituzioni, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà.
La prima condanna per tortura aggravata e il quadro complessivo che si va delineando sembrano dare ragione a questi ultimi.
Pronunciandosi, qualche mese fa, su uno dei casi di tortura «ordinaria», la Corte di Cassazione è riuscita a neutralizzare i punti più critici della legge facendo affidamento sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ora la prima condanna di un pubblico ufficiale dimostra che contro gli abusi di potere si può combattere e che lo si può fare anche nelle aule dei tribunali, dove la tortura può essere chiamata con il suo nome, senza ricorrere all’ipocrisia degli eufemismi.
Non vi è dubbio che la ricerca di verità e giustizia continuerà a incontrare ostacoli formidabili quando di mezzo ci sono gli apparati dello Stato: è così ovunque, non solo nei paesi non democratici. Il reato di tortura si sta rivelando tuttavia uno strumento valido, per quanto imperfetto, nell’affrontare quegli ostacoli. Un passo avanti nel cammino dei diritti umani che un approccio pragmatico ha permesso di raggiungere.
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