Oggi in commissione giustizia del senato inizia la discussione degli emendamenti al disegno di legge sull’introduzione del reato di tortura. Carlo Alberto Dalla Chiesa, 1978: «L’Italia può sopravvivere alla perdita di Aldo Moro, ma non all’introduzione della tortura».

L’affermazione è tanto più significativa perché, a pronunciarla, non è un militante di un’organizzazione umanitaria o un dirigente di Amnesty International, bensì un generale dei Carabinieri, allora Coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo: e in quelle parole si trova l’enunciazione della più assoluta incompatibilità tra tortura e democrazia. Non a caso il divieto di tortura, oltre a fondare uno dei principi essenziali del diritto internazionale, rappresenta per il nostro ordinamento l’unico caso di incriminazione obbligatoria, cui il Parlamento dovrebbe finalmente (e pur tardivamente) adempiere.

Quello delle violenze, fisiche o morali, su persone sottoposte a restrizioni della libertà, è infatti l’unico caso in cui il costituente, all’art. 13, comma quarto, prescrive al legislatore di ricorrere alla sanzione penale per proteggere la persona da violenze perpetrate abusando di un potere che dovrebbe esercitarsi in nome delle istituzioni democratiche e che invece tradisce proprio i principi dello stato di diritto.

Il divieto di tortura è infatti il più forte limite intrinseco al monopolio della violenza legittima da parte dello stato: il potere punitivo e il potere di polizia sono legittimamente esercitati solo se e fino a quando non si risolvano nell’abuso della condizione di privazione della libertà in cui versa chi vi sia sottoposto. La tortura è il limite cui né la pena né l’interrogatorio da parte di pubblici ufficiali possono giungere, senza risolversi in pura violenza: è quell’«infame crogiuolo della verità», «monumento ancora esistente – scriveva Cesare Beccaria nel 1764 – dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell’acqua bollente e l’incerta sorte dell’armi».
Lo stesso Thomas Hobbes – che pur sosteneva l’opportunità di una «regolamentazione» della tortura – ammetteva che «il male inflitto dall’autorità pubblica» in assenza di condanna degradasse a mero «atto ostile», in quanto espressivo della violazione, da parte delle istituzioni statali, del dovere di salvaguardia della persona affidata alla custodia dell’autorità pubblica.

Questa lunga premessa per meglio sottolineare la natura di reato proprio che la maggior parte delle convenzioni internazionali e degli ordinamenti attribuisce a questo delitto, configurandone l’autore come un pubblico ufficiale o chi eserciti pubbliche funzioni abusando dei propri poteri. La ragione risiede nella stessa genesi, storica e simbolica, della tortura, che si inquadra nel rapporto tra suddito e stato e che diventa intollerabile quando i soggetti di quel rapporto diventano un cittadino privato della libertà e lo Stato democratico di diritto che anche in suo nome – in nome del cittadino sovrano – persegue interessi pubblici.

Connotato essenziale della tortura è dunque l’abuso di potere, che consente al pubblico ufficiale o a chi eserciti pubbliche funzioni di infliggere alla vittima un trattamento che ne viola la dignità, ovvero l’umanità stessa, e il diritto a non essere strumentalizzata per fini che la trascendano, secondo il noto principio kantiano.

È significativa, d’altra parte, l’intima connessione – anche qui: storica e simbolica – tra tortura e dispotismo; regimi della paura in cui la coercizione del corpo e della volontà attraverso trattamenti inumani (e pene crudeli), oggetto di spettacolarizzazione, miravano ad esibire simbolicamente un potere assoluto e illimitato.

Il reato di tortura, insomma, è una garanzia contro la più grave degenerazione dell’autorità in violenza, del potere in arbitrio, del diritto in mera forza. Ed è significativo che, nella tortura, la violazione della dignità passi attraverso l’umiliazione della persona e lo strazio del corpo, tanto più inaccettabile in un’età, come la nostra, che ha visto il progressivo sottrarsi del corpo (persino) alla pena legittima, trasformatasi – come scriveva Michel Foucault – da arte di «sensazioni insopportabili» in «economia di diritti sospesi». Il corpo e l’inviolabilità della parte più profonda e intima della persona tornano dunque a essere, nella tortura, materia di sopraffazione e di vendetta: ambiti di esercizio di un potere illimitato e violento, che espropria la persona del diritto all’intangibilità fisica e morale, già sancito con la promessa dell’Habeas Corpus: «Non metteremo le mani su di te».
Perciò l’idea di una «tortura democratica» – cui si riferisce l’avvocato statunitense Alan Dershowitz, ammettendone la legittimazione mediante «regolamentazione» – non può che rappresentare un ossimoro.

Ed è anche per questo che, se il nostro ordinamento riuscirà, come speriamo, ad assolvere agli obblighi internazionali (e costituzionali) cui è inadempiente da troppi anni, dovrà farlo qualificando la tortura come reato proprio: commesso cioè da chi lo stato democratico dovrebbe rappresentare, non tradire.

Quanto finora emerso dalla commissione Giustizia del senato va in una direzione diversa, qualificando la tortura come reato comune. Si tratta, a nostro avviso, di un errore. Qualora si ritenga che il nostro ordinamento non contempli efficacemente comportamenti qualificabili come tortura, commessi da privati nei confronti di altri cittadini, si devono individuare forme adeguate di proibizione e di punizione. E ciò anche nel caso che, a commettere quelle violenze, siano gli affiliati a organizzazioni criminali che si arroghino un illegittimo potere di perseguire cittadini inermi: non sarà certo il Parlamento repubblicano a parificare poteri e responsabilità delle pubbliche autorità con quelli delle organizzazioni criminali.

Per tutti questi motivi, speriamo che il testo che sarà approvato dalla commissione prima e dall’aula del senato, poi, qualifichi espressamente il reato di tortura come reato proprio dei pubblici ufficiali e di chi eserciti pubbliche funzioni.