Il celebre scrittore e critico letterario inglese ottantunenne David Lodge, pur rimanendo fedele alle sue radici, ha scritto una gran quantità di storie che hanno appassionato i lettori di tutto il mondo, almeno fin dal 1975 quando ebbe successo con Scambi, il primo dei tre romanzi in cui descrisse con humour, a tratti sulfureo, il mondo dei professori. Il suo coraggio e la sua passione sono testimoniati dalle dimissioni dall’accademia nel 1987 per dedicarsi alla sua opera di narratore (il suo ultimo libro è Un buon momento per nascere. Memoir 1935 – 1975, Bompiani), e dalla capacità con cui lui e sua moglie hanno saputo far fiorire abilità impensabili dal terzo figlio nato con la sindrome di Down.

Lei ci ha consegnato la prima parte della sua autobiografia, che si discosta nello stile dalla sua produzione narrativa così trascinante e piena di humour. Quanta parte di autobiografia possiamo rintracciare in ciascun romanzo?
La narrativa contiene in sé una matrice fortemente realistica e lo è diventata progressivamente sempre di più. Un realismo che, a partire dalla fine del XIX secolo e per tutto il XX secolo, si è concentrato principalmente sull’aspetto della coscienza: cosa le persone pensano, come agiscono, come reagiscono alle parole degli altri. È presente un elemento forte di soggettività nell’espressione, e proprio per questa ragione, necessariamente, il romanziere attinge dalla propria esperienza.

Esistono però altre modalità narrative: basti pensare alle distopie di Orwell. Oppure, riferendosi all’oggi, ai testi di Houellebecq…
Naturalmente, pensiamo anche alle opere di impronta più politica. L’opera letteraria è sempre caratterizzata dalla presenza della vita e dal punto di vista dell’autore che precipita in ciò che scrive.
All’inizio, c’è un’idea. Nasce da ciò che è capitato al narratore, che lui stesso ha selezionato e trovato interessante. L’idea viene poi sviluppata, immaginando che possa essere suggestiva anche per sguardi esterni. Ho scritto un romanzo in cui parlavo dell’esercito, dell’essere un soldato, e non avrei mai potuto farlo se non avessi fatto anch’io il militare. E poi mi è capitato nella vita di assistere una zia morente alle Hawaii, a Waikiki, e anche questo l’ho raccontato in un libro. Non avrei mai ambientato un romanzo alle Hawaii, né parlato del turismo, del fatto di credere o non credere se non avessi vissuto questo momento della vita. Quando tale esperienza si esaurisce, allora si sposta lo sguardo, cercando materiali ulteriori per i propri libri, aree di ricerca, cose che non ci sono capitate. E’ quel che ho fatto scrivendo due opere su Henry James e su H. G. Wells. Non ritengo siano due biografie, ma opere su due autori che conoscevo per via del mio lavoro e a causa della mia attività di critico letterario. Il nucleo a cui ci si riconnette come scrittori è quello personale. Ma il vantaggio nello scrivere una narrativa che è fiction, non autobiografica è la possibilità di inventare mondi e far andare le cose secondo ciò che si desidera, come si vorrebbe andassero.

Qual è la relazione fra il lavoro individuale del narratore e la raffigurazione del mondo che ci circonda? I problemi personali trovano un’eco nelle situazioni condivise dai membri di una comunità o della società?
Bisogna credere che scrivere possa avere come risultato ciò che io definisco il «brivido del riconoscersi» in qualcosa da parte del lettore, in un’esperienza resa magari più drammatica, o più complessa. Sono sempre stato consapevole dei cambiamenti sociali che avvenivano nel mio Paese e anche del mio rapporto con essi. Sono stato parte della prima generazione che ha beneficiato dell’istruzione al livello secondario e terziario gratuito nel Regno Unito e poi, da insegnante e, in seguito, come professore universitario, ho avuto classi intere di studenti che erano i primi delle loro famiglie a frequentare l’università. In questo senso, mi sono potuto sentire parte di un processo più ampio. Se si leggono in senso cronologico i miei romanzi, si può avere un quadro dello sviluppo avvenuto in Inghilterra negli ultimi venti, trenta, quarant’anni. Credo che un romanzo sia in grado di soddisfare soprattutto una curiosità che è quella di sapere che cosa pensino gli altri. Noi non possiamo mai saperlo, non ne siamo mai sicuri, non sappiamo cosa passi nella testa degli altri: ecco allora che il romanzo ci dà questa illusione di comprensione, disegna un possibile funzionamento di una rete sociale. La narrativa aiuta gli individui a solcare le acque della vita, e credo che sia proprio questa la ragione per cui il romanzo, come forma letteraria, è diventato dominante. È in grado di fornire – e gestire – sia le minuzie, cioè idee ed emozioni anche molto piccole, sia di raccontare una storia che abbia un suo andamento. In particolare è il dettaglio psicologico a caratterizzare il romanzo moderno. E dicendo «moderno» mi riferisco ai romanzi degli ultimi 150 anni.