P come Privacy. Che non c’è. Almeno quando a gestire ogni risvolto della tua vita ci pensano Google, Amazon, Facebook e Co.

Già, la privacy, un concetto di origine anglosassone accostabile a termini come «privatezza» e «riservatezza», nasce dal saggio di due avvocati, «The right to privacy» con l’idea di bilanciare i diritti della persona contro l’invadenza della tecnologia più moderna dell’epoca, la fotografia, perché uno dei due, Samuel Warren, era stufo di vedere la moglie salottiera sulle prime pagine dei giornali in situazioni decontestualizzate rispetto ai fatti di cronaca.

Era il 1890.

Entrato nell’ordinamento giuridico italiano sull’onda delle proteste operaie con la legge 300 del 1970, il famoso Statuto dei Lavoratori, con l’articolo 4 che vietava i controlli a distanza – di cui il Jobs Act ha fatto scempio – la Privacy è stata costituzionalizzata nella Carta di Nizza nel 2007.

Divenuta diritto fondamentale dell’Unione Europea, della privacy è stata fatta strame da telefoni che fanno foto, app e social network.

Con un piccolo scandalo alle porte: il Codice Privacy italiano che ci ha finora difeso dall’uso improprio dei nostri dati potrebbe essere rimpiazzato anche nelle parti migliori dal General Data Privacy Regulation (GDPR), la nuova legge europea sulla protezione dei dati, con un pastrocchio legislativo che depenalizza il reato di trattamento illecito dei dati personali, art. 167, proprio il caso di Cambridge Analytica. Beneficiando processi come quello a carico dei fratelli Occhionero per aver provato a spiare Renzi, Gentiloni e tutto il cucuzzaro.

Ma parliamo di Facebook.

Messo con le spalle al muro per lo scandalo di Cambridge Analytica, il suo presidente e fondatore Mark Zuckerberg, davanti alle commissioni parlamentari del Congresso ha risposto da scolaretto stralunato alle domande via via meno banali dei politici che non vogliono ammazzare nella culla la creatura più importante del soft power americano, proprietaria anche di Messenger, WhatsApp e Instagram.

Domande sbagliate, che Marc Rotenberg dell’Electronic Privacy Information Center, sostiene andrebbero rifatte: non si deve chiedere a Mark se c’è stato un uso illecito dei dati, ma cosa Facebook ci fa ogni giorno e quali consegna ad altre società senza dirlo; non si chieda a Mark cosa bisognerebbe fare, ma perché non ha fatto quello che gli era già stato chiesto dal governo: garantire la privacy degli utenti.

Una piattaforma come Facebook che traccia e profila gli utenti e gestisce le nostre identità lo fa sicuramente per offrirci un servizio migliore, ma questo servizio perché è gratis? Chi lo paga? Come fa Zuckerberg a guadagnarci se non dando in pasto agli inserzionisti dati dettagliati su etnia, colore, età, sesso, stili di vita e scelte commerciali dei suoi utenti?

Alla fine Zuckerberg ha dovuto ammettere che Facebook è una media company, aprendoci un mondo: dovrà soggiacere alle loro stesse regole, anche nelle competizioni politiche.

Ma non ha ancora ammesso che il problema della manipolazione dei dati a fini politico-elettorali riguarda tutti gli utenti Facebook.

A proposito, i servizi segreti italiani ci avevano avvertito di potenziali furti di dati usati per influenzare il voto proprio nella relazione consegnata al Parlamento il 20 Febbraio scorso.

Benvenuti nel XXI secolo.

Dopo questa botta sarà piuttosto difficile per Zuckerberg candidarsi alle primarie del partito democratico americano, lui che con i dati di 2 miliardi di persone poteva essere il re del mondo.