Graffiante, eversivo e spassoso, BlacKKKlansman è il film che lo scorso maggio ha resuscitato una Cannes (e un Festival) da un torpore catatonico, una sveglia sulle note dei Temptations (Ball of Confusion) sparati a palla sulle algide scalinate del Palais. Nel suo ultimo film Spike Lee remixa il suprematismo di Via Col Vento, D.W. Griffith e la blaxploitation di Pam Greer e Richard Roundtree. Cita a lungo Stokely Carmichael e le Pantere Nere e mette Harry Belafonte seduto sul trono di vimini di Huey Newton a raccontare un linciaggio sudista.

Il pretesto è l’assurda storia (vera) del primo agente afro americano nella bianchissima polizia di Colorado Springs (John David Washington – figlio di Denzel) che si infiltra in una cellula del Ku Klux Klan. Il razzismo «vintage» punta però dritto agli attuali titoli dei giornali dato che come ha dichiarato il regista: «Il nostro mestiere di filmmaker ci impone di collegare il presente al passato. Ciò che sta accadendo oggi non è uscito dal nulla. Occorre ritornare a quanto avvenne negli anni Settanta e molto prima ancora . È il momento di andare a lezione di storia».

Un’invettiva satirica dunque contro l’America vomitata da Trump e un film che crea un intenzionale cortocircuito fra i fantasmi suprematisti della cattiva coscienza nazionale e le intemperanze fascistoidi dell’attuale rigurgito eugenetico. Spike utilizza il registro grottesco (non a caso il produttore è Jordan Peele di Get Out) per il suo film più sperimentale e torna alla forza di Do The Right Thing. Un cinema militante tutto «del momento», una simmetrica controparte fiction al Fahrenheit di Michael Moore che conclude sulle vere e agghiaccianti immagini di Charlottesville – la strage neonazista avvallata da Trump. E Spike Lee ha voluto che il film uscisse nelle sale americane n America nel primo anniversario esatto di quei fatti. BlacKKKlansman in Italia arriverà in sala giovedì prossimo. Abbiamo incontrato Spike Lee tra Cannes e Los Angeles.

Era importante uscire nell’anniversario di Charlottesville?

Quando abbiamo iniziato a pensare al modo migliore per distribuire il film, ci siamo messi d’accordo per la partecipazione al Festival di Cannes. Poi ho guardato il calendario e mi è sembrato giusto essere in sala per quell’anniversario. Non è stata una decisione di marketing, l’idea era soprattutto rendere omaggio a Heather Heyer, che quel giorno ha perso la vita, e ricordare cosa è successo quel weekend di razzismo. È stato un omicidio e abbiamo un tizio alla Casa bianca – nemmeno voglio dire il suo nome – che in un momento cruciale, non solo per l’America ma per il mondo avrebbe potuto dire che la nostra nazione sceglieva l’amore invece dell’odio. Ma quel fottuto stronzo non ha denunciato il fottutissimo Ku Klux Klan, la alt-right e nemmeno i fottuti nazisti! La nostra cosiddetta democrazia: tutte palle. Gli Stati uniti sono stati costruiti sul genocidio dei popoli indigeni e sulla schiavitù. Questa è la stoffa dell’America. Va bene credere nella speranza ma mica siamo sordi o ciechi. Penso che si possa avere speranza e allo stesso tempo essere consapevoli di quanto sta accadendo.

 

È quasi come se dicesse che il cinema può fare di più che semplicemente incassare al botteghino…

Perché non è possibile puntare a entrambe le cose? Io ho avuto la fortuna di realizzare film che a volte, oltre ad ottenere un risultato commerciale, hanno forse arricchito positivamente chi è andato a vederli.

 

Definirebbe «BlacKKKlansman» un altro film sull’America?

Non l’ho fatto perché venisse visto solo negli Stati uniti, uscirà in tutto il mondo e ciò di cui parla è un problema che riguarda il nostro presente. L’estrema destra è un fenomeno che sta dilagando ovunque. E spero vivamente che gli spettatori che vedranno BlacKKKlansman nei propri paesi lo capiscano, spero che possa scuotere la gente dal torpore.

 

Alcuni lo paragonano a «Do The Right Thing».
Quando feci Fai La Cosa Giusta, una delle critiche che mi è stata mossa era che il film non proponeva una soluzione al razzismo. Innanzitutto non sono io ad avere la risposta, né allora né oggi. Non era questo l’obbiettivo del film. L’idea era piuttosto di stimolare la discussione, ed è lo stesso anche stavolta. Ci sono troppe persone che si muovono in una specie di frastornamento, come se fossero drogati. È uno stato comune, le persone sembrano impazzite, non riescono a ragionare. Perciò è il momento di alzare al voce, di farsi sentire. Non possiamo girarci dall’altra parte, far passare questo tipo di cose quando sappiamo bene che non è giusto. Conosciamo la differenza fra giusto e sbagliato. E quando il male ti fissa negli occhi e tu stai zitto allora – ne sono convinto – significa che stai aiutando il nemico. Il mondo è sottosopra, il falso viene spacciato per vero. BlacKKKlansman parla di questo e so che siamo dalla parte giusta della storia.

Secondo lei il cinema nero in America sta attraversando un momento particolarmente vitale?

Black Panther, il film di Ryan Coogler, ha cambiato tutto. Però il fatto è questo: quando uno studio fa il budget per un film una delle voci principali è quella che riguarda la fruibilità internazionale. Per anni è passata la bugia che i film afro americani all’estero non funzionano. Così quando cerchi i finanziamenti ti assegnano un budget che ha zero per la distribuzione internazionale – e i soldi non bastano a produrlo. Se poi per caso funziona ti dicono: «Ma quella era un eccezione». Black Panther quesra teoria l’ha demolita, adesso faranno fatica a dire che un cast afro americano non può attirare pubblico.

Perciò possiamo parlare di un rinascimento nel cinema black …

Si ok, ma il fatto è che succede ogni dieci anni. E allora il mio telefono comincia a squillare e a essere inondato di domande sul maledetto rinascimento del cinema nero (ride, ndr). Dopo però ci sono altri nove maledetti anni di carestia. Io dico sempre che per rompere il circolo vizioso bisogna cambiare il sistema, gli afro americani devono entrare nelle posizioni chiave dell’industria. Il Paese è cambiato, per dio! Non sono io a dirlo è il censimento! Basta guardare stati come la California dove i bianchi sono già in netta minoranza. Quindi, anche se sei un razzista, non vuoi piazzare lo stesso il tuo prodotto sul mercato? Mi sembra logico mirare anche alla maggioranza e, per questo, assumere una forza lavoro che rifletta le trasformazioni. Invece abbiamo «Agent Orange» coi suoi muri e le deportazioni, i bambini separati dalle madri. Il tempo avanza e la gente vuole tornare al passato.

 

Cosa dobbiamo fare?
Credo che la cosa più urgente sia andare a votare. Le elezioni midterm sono dietro l’angolo e vorrei dire agli americani: «Se non vi sono bastati gli ultimi due anni come incentivo, per correre alle urne non so cosa potrebbe motivarvi». Credo anche che otto anni di presidenza Obama ci hanno resi compiaciuti, era come se fosse potuto rimanere per sempre, invece si è aperto uno spiraglio in cui è scivolato «Agent Orange». È stata – chiaramente – la reazione precisa di una parte degli americani a Obama, a un presidente nero nella Casa bianca. «Agent Orange» l’ha usata come una strategia di marketing ed eccoci qua.

 

Cosa la spinge ancora a lavorare?

Ogni film che ho fatto negli ultimi trent’anni lavora su un soggetto che volevo affrontare in un preciso momento. La mia motivazione è la stessa che avevo da studente a scuola di cinema: raccontare delle storie. È un dato che non è mai cambiato come sono sempre uguali la mia energia e l’entusiasmo che ho nel fare ciò che amo. Lo dico sempre agli studenti del mio corso alla New York University: ogni volta che riuscite a guadagnarvi la vita facendo ciò che davvero amate siete fortunati perché la maggior parte della gente a questo mondo sbarca il lunario odiando il lavoro che fa per tutta la vita.