La categoria di terrorismo si riferisce a quegli atti di violenza politica che producono una lacerazione all’interno della comunità. Etichettare un evento come terrorista, sortisce il doppio effetto da un lato, di squalificare umanamente e politicamente gli autori del gesto, dall’altro lato, di ricompattare la comunità colpita attorno ai suoi fondamenti, anche in funzione della preparazione a misure di emergenza adeguate a fronteggiare la minaccia. Tuttavia, sussiste uno squilibrio di parametrazione tra gli attentati compiuti da islamisti, come Charlie Hebdo, Bataclan e Nizza, e quelli avvenuti in Italia, come i pogrom antitzigani di Napoli (2008) e di Torino (2011), o l’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018.

CHI DEFINISCE un atto di violenza politica come terrorista? A quali dinamiche soggiace la costruzione della definizione? Marcello Maneri e Fabio Quassoli, nel libro da loro curato, Un attentato «quasi terroristico». Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media (Carocci, pp. 145, euro 16) cercano di rispondere a queste domande.
Gli autori analizzano le reazioni susseguite all’attentato commesso da Luca Traini, che a Macerata, nel contesto di una campagna elettorale incardinata sugli assi di immigrazione e sicurezza, sparò addosso a un gruppo di cittadini di origine africana, ferendone gravemente sei.

TRAINI si avvolse nel tricolore, asserendo di voler vendicare l’uccisione di Pamela Mastropietro da parte di un migrante nigeriano. Seguì subito un tweet di Salvini, che attribuiva la responsabilità dell’attentato di Macerata alla paura dell’immigrazione clandestina, cui Saviano provò a controbattere. I tentativi dello scrittore non ebbero seguito, e anche la manifestazione antifascista successiva venne etichettata come un raduno di estremisti. In altre parole, prevalse il senso comune securitario.

I lavori contenuti nel libro spiegano accuratamente il processo di costruzione del senso comune securitario che ha prodotto l’interpretazione dominante dei fatti di Macerata. Malgrado le potenzialità dei social network fornirebbero l’opportunità di svincolare la sfera pubblica dalle interpretazioni dominanti proposte dai media e dai politici, ci troviamo comunque all’interno di un contesto connotato dai rapporti di forza.
La cornice interpretativa di un evento si struttura attorno alle opportunità fornite dal discorso politico e mediatico dominante, vanificando ogni possibilità di una sfera pubblica allargata e non organizzata dall’alto. In altre parole, gli utenti di Facebook e di Twitter, impregnano le loro opinioni nel brodo di coltura di supporti mediatici professionali e professionalizzati, che fanno della costruzione della notizia il loro mestiere a scopi economici o politici e, quindi, hanno tutto l’interesse a rafforzare i luoghi comuni invece che scardinarli.

È PIÙ FACILE E PIÙ REDDITIZIO, in termini di audience e di voti, associare l’immigrazione alla criminalità invece che dimostrare il contrario e rischiare una distonia con le rappresentazioni immediate; potrebbe tradursi in perdita di abbonamenti, voti e seguito. Ecco allora che i media dominanti lavorano a depoliticizzare l’attacco razzista e terrorista di Macerata.
Di conseguenza, nelle loro rappresentazioni dell’evento, Traini viene definito attraverso l’utilizzo di categorie di impronta psichiatrica, derubricando il suo atto esplicitamente criminale a episodio sporadico, opera di un folle, tra le cui pieghe trapela la discriminazione che la società italiana mette in atto contro i migranti. Quando si verifica il caso contrario, ad esempio stupri o omicidi commessi da migranti, si mette in atto immediatamente la distinzione binaria tra italiani e stranieri, che alimenta i pregiudizi e normalizza gli atti di razzismo.

IL CASO DI MACERATA, ci spiegano gli autori, si connota come un fatto mediatico totale. Le percezioni, le rappresentazioni, le costruzioni di senso comune che predominano nel contesto sociale attuale, nonché l’egemonia securitario-razzista che li pervade, vi si riflettono tutte.
È una lezione amara, quella che se ne può trarre. Non soltanto perché fa a pezzi ogni speranza di creare una sfera pubblica aperta e plurale. Ma anche perché ci dice che la nostra democrazia è ancora ferma sulla soglia etnico-razziale, e non sembra in grado di oltrepassarla nell’immediato.