Il Ku Klux Klan è sbarcato nella Patria dei diritti dell’Uomo. Non indossa i cappucci neri classici, né dà la caccia al «negro», ma pratica ugualmente il linciaggio del nemico ontologico. Che in tal caso è lo Zingaro, idealtipo dell’Altro cui imputare le ragioni della propria condizione, rabbia, frustrazione. O da sfruttare come capro espiatorio in favore di una politica sempre più indegna di questo nome, cui null’altro resta ormai, per occultare la propria inadeguatezza, che liberare la parola razzista e titillare le pulsioni malsane della plebe.

Ciò che è accaduto pochi giorni fa a PierrefittesurSeine, cittadina non lontana da Parigi che ha conosciuto tempi ben migliori (vi soggiornarono de Balzac,Gautier,Valadon, Utrillo…), è decisamente un salto di qualità. Non più solo i pogrom compiuti da bande di banlieusards a loro volta emarginati, come a Marsiglia nel 2008 e nel 2010. Non più solo la distruzione di campi e bidonville seguita da illegittimi rimpatri collettivi (di rumeni e bulgari, cioè cittadini europei). Non più solo il dodicenne rom sbattuto in carcere (è accaduto nel 2012) o la quindicenne, ottima liceale, deportata in Kosovo con la famiglia a ottobre del 2013. Non più solo gli attentati all’acido corrosivo nel cuore di Parigi, per mano di un alto funzionario d’area socialista.

Questa volta lo schema è quello di un premeditato linciaggio in piena regola. Una squadraccia armata, i volti coperti, rapisce Darius, sedicenne sospettato di furto, dalla bidonville in cui vive con la famiglia. Lo imprigiona in una cantina e lo massacra finché non lo crede morto. Infine, oltraggio supremo, lo abbandona, piegato in due, in un carrello da supermercato. Così lo troverà la polizia: ormai agonizzante, il corpo inerte e gonfio di ematomi. Sicché, ancora mentre scriviamo, i medici disperano di salvarlo.

No, non chiamiamo tutto questo guerra tra poveri. In questa tragedia c’è un terzo personaggio, il vero protagonista: è il razzismo cinico delle élite politiche, che si manifesta con leggi, atti e parole. L’ostilità antizigana, tratto costitutivo della storia francese al pari dell’animosità antiaraba, è stata rinverdita a bella posta, insieme con la seconda, da governanti e amministratori mediocri, ansiosi di competere con i maîtres-à-penser del Front National. Il ciclo che va da Sarkozy a Hollande, fino a oggi, è punteggiato da una scalata di azioni e dichiarazioni antizigane inversamente proporzionale al numero dei bersagli: sono appena ventimila i rom presenti sul sacro suolo francese, e per metà bambini.

Al di là delle condanne di circostanza dei politici, neppure un atto tanto atroce è valso non dico a suscitare compassione per la vittima, ma almeno a spezzare per un attimo il circolo vizioso fra il razzismo dall’alto e quello dal basso. In Francia come in Italia, paese che vanta primati ragguardevoli nel campo della ziganofobia (dalla cosiddetta Emergenza-nomadi ai pogrom di Scampia, Ponticelli e così via), i commenti del pubblico su reti sociali, radio, giornali sono di un’impressionante perfidia razzista, sebbene talvolta inconsapevole.

I fustigatori italici della devianza zigana, che arrivano a giustificare il linciaggio di un adolescente, forse ladruncolo, certo per bisogno, riflettano sul paradosso seguente. Fra gli implicati nella cupola del Mose, v’è qualche amministratore che pochi mesi fa, insieme ad altri, aveva presentato trionfalmente il Patto di sicurezza metropolitana tra Padova, Venezia e Treviso contro «accattoni molesti o petulanti», cioè contro i rom. Gli affiliati di quella cupola sono dei devianti, ancor più biasimevoli in quanto ricchi e potenti. E tuttavia i nostri fustigatori si permetterebbero mai di giustificare un ipotetico linciaggio ai loro danni?