Adalberto Libera, tra i più grandi protagonisti dell’architettura razionalista italiana, moriva quarant’anni fa a Roma. Nato a Villa Lagarina nel 1903, Libera crebbe nel medesimo contesto culturale di altri grandi, come l’architetto e amico Gino Pollini e il futurista Fortunato Depero. Ora il Mart di Rovereto gli dedica un omaggio, con la mostra curata da Nicola Di Battista, architetto e neo-direttore di Domus. Il tema dell’esposizione è la città ideale, che Libera immagina fin dai suoi esordi: la sistemazione del mausoleo di Augusto (1934-37), Arco dell’E42 (1937-40), Palazzo dell’Acqua e della Luce (1939), la Città Ideale (1937), Sala ricevimenti del Palazzo dei Congressi all’E42 (1937).
Questi progetti si inseriscono a pieno diritto in quelle utopie architettoniche disegnate da Étienne Louis Boullée e Claude Nicolas Ledoux, rappresentate da cenotafi e monumenti funebri, disegnati a pianta centrale. Non è un caso che l’architetto trentino riproponga proprio quelle piante, prevalentemente circolari, monolitiche per l’uso dei materiali, marmo e mattoni, monumentali nelle dimensioni: nel farlo, rimarcava una tendenza del suo tempo, rapportandosi con l’antica Roma, emblematica, del ventennio fascista. Se il curatore, nel suo testo in catalogo, insiste nell’indicare Libera come «un architetto moderno», è necessario precisare che la sua è una modernità che si va a collocare nel solco della tradizione.
Un fatto confermato anche da Bruno Zevi, quando riporta il manifesto del Gruppo 7 (fondato nel 1926 da Figini, Pollini, Frette, Larco, Libera, Rava e Terragni): «Noi non vogliamo rompere con la tradizione, è la tradizione che si trasforma. La nuova generazione proclama una rivoluzione architettonica che vuole organizzare e costruire: un desiderio di sincerità, di ordine, di logica…». Per Zevi, sono enunciati «vaghi e cauti…ambiguità di significati per non irritare nessuno». Un atteggiamento questo, che non li salverà dall’epurazione attuata da Marcello Piacentini dopo le prime due mostre, del 1928 e del ’31, sull’architettura razionalista.
Di fronte a una rivoluzione di facciata, il fascismo voleva mantenere lo status quo senza opposizione e la nouvelle vague dell’architettura moderna rappresentava una minaccia. Solo Terragni, Pagano e il duo Figini e Pollini cercarono vie alternative al linguaggio architettonico di stato. Proprio Figini e Pollini, lavorando per Adriano Olivetti in un contesto particolare e protetto come quello di Ivrea, riuscirono a verificare le proprie idee architettoniche e a costruire la prima città moderna, contrapposta a quelle di fondazione.
Libera, come altri architetti – Luigi Moretti, Angiolo Mazzoni, Eugenio Montuori, Giovanni Michelucci – propose invece un linguaggio aderente all’ideologia fascista. Dall’altra, Figini e Pollini declinavano il razionalismo seguendo i dettami lecorbuseriani, soprattutto nell’ampliamento della fabbrica Olivetti (1939-42). Allo stesso tempo, cercarono di sviluppare una ricerca autonoma che si differenziasse, nelle opere successive, dall’applicazione letterale del razionalismo nordeuropeo: lo fecero contestualizzando le proprie architetture rispetto ai luoghi. In questo senso, l’esempio più significativo è l’asilo a Borgo Olivetti, realizzato nel 1939, nello stesso anno in cui Libera disegnò il Palazzo dell’acqua e della luce (un progetto onirico, ancora nel solco della tradizione), che riprendeva alcuni caratteri vernacolari, come l’uso della pietra in facciata, declinandoli in maniera moderna, evitando di conferire all’involucro quella monumentalità cara a Libera. Due idee differenti di modernità, dunque, che avrebbero meritato un confronto approfondito, ma nel palinsesto composto da Di Battista (che nutre un’ammirazione profonda per Libera), non ve ne è traccia. Il curatore si è concentrato solo su alcuni progetti, proponendo così una lettura frammentaria, senza costruire l’indispensabile cornice del contesto storico, politico e architettonico.
Il Mart, sotto la nuova direzione di Cristiana Collu, dimostra – anche nelle altre mostre – l’efficacia del suo progetto culturale. Si va dalla Magnifica ossessione, una splendida carrellata delle collezioni museali, ad Andata e Ricordo. Souvenir de voyage. Realizzata dai giovani curatori del museo, l’esposizione conduce lo spettatore attraverso un viaggio poetico tra gli oggetti kitsch e gli ex voto raccolti da Julio Paz, le fotografie di Paola Di Bello, passando per la mappa della metro parigina assemblate in un unico collage, le fotografie di Rä Di Martino, i set cinematografici Usa abbandonati nel deserto marocchino, il Kaleidos di Maria Elisabetta Novello e L’Enciclopedia di Lorenzo Missoni (collage di immagini tratte da enciclopedie e stratificate, che creano collimazioni e spaesamenti attraverso fori tondi praticati sulle foto).
Nel percorso, troviamo anche l’immancabile Italia in miniatura di Ghirri, i manifesti di Dudovich e Romoli, scatti di viaggio. Alla Casa Depero, Paolo Ventura presenta due serie fotografiche, dove allestisce set scenografici strutturando due storie. Nella prima, un mago fa scomparire un monello (è lui l’attore sullo sfondo di una Milano alla Sironi), mentre nella seconda, interpreta il pittore-soldato futurista che va in guerra e poi ritorna, mutilato, a chiedere l’elemosina.