«A Stoneygate c’era una vasta area incolta e disabitata, uno spazio vuoto fra le case e il fiume, proprio dove una volta si trovava la miniera». È l’incipit del Grande gioco dell’inglese David Almond,riproposto ora da Salani (pp. 308, euro 13,90), dopo che in Italia era arrivato nel 2001 (con Mondadori). Nonostante sia considerato un secondo romanzo, Kit’s Wilderness – questo il titolo originale – era già «nato» quando venne dato alle stampe il meraviglioso Skellig nel ‘98 e adesso, nel catalogo della casa editrice, segue Argilla, La storia di Mina, Il ragazzo che si arrampicò fino alla luna, in una specie di Almond-saga. Ma vale la pena leggerli tutti. Il grande gioco pesca a piene mani dall’infanzia dell’autore: descrive paesaggi desolati, brumosi o congelati e immerge i lettori in tre diverse stagioni della vita: autunno, inverno e primavera, escludendo la luce diretta e bruciante dell’estate.

Vissuto in una cittadina a nord est dell’Inghilterra mineraria, Almond, attraverso gli occhi e la fervida immaginazione di Kit Watson (che, non a caso, ha la dote di saper scrivere bellissime storie), racconta il mondo di sotto delle miniere e lo fa attraverso una pratica perversa che mettono in atto alcuni ragazzi del paese, guidati dal cinico e, a sua volta, spaventatissimo John Askew. È un rito di iniziazione chiamato «gioco della morte»: si viene prescelti, si scende in una tana, si entra nello stato del sonno eterno per poi riemergere su questa terra, squarciando il buio e condividendo le proprie visioni con gli altri. Molti mentono, però, non tutti hanno il dono della «vista». Solo Kit e John, legati da una misteriosa scritta su un monumento che li inserisce tra i bambini rimasti sepolti vivi dentro la miniera più di un secolo prima, incontrano gli sguardi, ascoltano i bisbigli e sentono le risate soffocate di quei coetanei scomparsi. Che tornano. Una presenza la loro, che fa da ponte tra passato e futuro, a cui solo il nonno di Kit, anch’esso un tempo minatore, può prestare una degna attenzione emotiva. Pure quando sarà smemorato e ormai un uomo anziano senza più ricordi, non perderà la scintilla dei bimbi evaporati. «Bricconcelli», come Luccicaseta, quel fantasma che appariva nelle dure giornate di lavoro laggiù, tra le viscere della terra e mangiava tutto ciò che gli veniva lasciato.

Potentissima metafora di quel tunnel e periodo di sospensione che è l’adolescenza, il Grande Gioco è una storia molto biografica e insieme collettiva. È un viaggio che compiono insieme alcuni ragazzi «selvaggi», tutti outsiders: Bobby posseduto dalla cattiveria generata dalla mediocrità, Askew, disegnatore formidabile, inventore di sogni e incubi, Kit, lo storyteller che piega il mondo alle sue parole. Si è trasferito da poco a Stoneygate, perché così era scritto nel suo destino. Con loro, e soprattutto sempre al fianco di Kit, c’è Allie. Ragazzina perspicace e vitale, tenta di allontanare le tenebre e gli inferi dal suo protetto, ma anche lei coltiva dentro di sé un lato oscuro: nel trasformarsi per una recita nella Regina delle Nevi dimostra di saper ghiacciare i suoi sentimenti, difendendosi con la crudeltà da quella metamorfosi continua e faticosa che è la crescita, l’abbandono delle sicurezze dell’infanzia per addentrarsi a tentoni nella vita adulta.