Dopo aver pubblicato La caduta del cielo, il monumentale racconto orale dello sciamano brasiliano Davi Kopenawa e della cosmologia degli indigeni Yanomami, raccolto dall’etnologo francese Bruce Albert dopo quarant’anni di lavoro sul campo, la casa editrice Nottetempo inaugura una collana che è l’ideale continuazione di quel prototipo. Sì, perché questo libro riesce a mettere insieme sia un’avvincente narrazione, in questo caso una straordinaria biografia antropologica, ma anche pensiero filosofico, racconto tout court e storia di un popolo, uno dei più rappresentativi e resistenti dell’Amazzonia, senza avere i limiti del saggio paludato ma, invece, i pregi di quelli divulgativi della scienza partecipativa. Il titolo ne denuncia subito le intenzioni, Terra, e già i primi volumi non si smentiscono per interesse e stile, dalle Quattro capanne di Leonardo Caffo a Foresta giuridica di Paulo Tavares e Ursula Biemann, e in particolare Sulla pista animale di Baptiste Morizot, filosofo francese che con questo libro ha ricevuto nel 2019 il Prix Jacques Lacroix dell’Académie française. Un libro dove la scienza si lega soprattutto all’esperienza quotidiana, all’osservazione militante, ma soprattutto a una scrittura elegante e distesa, molto narrativa, che cattura e riesce di più e meglio a fornire al lettore conoscenze altrimenti meno attrattive (anche grazie alla traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). L’autore riflette sul nostro (non) rapporto con la natura, soprattutto con il mondo animale, con il quale dobbiamo ricostruire un nuovo stile di convivenza, cominciando a imparare dai popoli indigeni, che come avverte lo studioso Gilles Havard, «hanno un rapporto sociale con la foresta», mentre noi (noi mondo occidentale, urbanizzato) viviamo separati, distinti. «Nell’ontologia naturalista occidentale», ci ricorda Morizot, «l’animale è tradizionalmente un oggetto passivo, materia animata per il soggetto spettatore che è l’essere umano. Forse perché prima di ogni cosa l’animale è, in modo consistente, tradotto in cibo o strumento per l’essere umano», questo nel ciclo consumistico dell’economia capitalistica. La nostra relazione distorta ci porta a pensare da sempre a una natura che per civilizzare dobbiamo sconfiggere, «e un’ecologia arcadica che sogna una natura priva di ostilità». Il libro è una sorta di costante riflessione in movimento e «all’aria aperta», in piste non tracciate, attraverso spaesamenti, attraversamenti in un unico tessuto immersivo, un’esperienza ecologica vissuta come «ritorno sulla terra» quando l’autore dice non a caso «vado a inforestarmi». L’idea portante è quella di cambiare sguardo, «per comprendere la traiettoria dell’animale, bisogna mettersi al suo posto, vedere con i suoi occhi», scrive, tornando trasformato, diventando un «cacciatore di immagini», come Jules Renard in Storie naturali: «Il cacciatore non sapeva d’esser dotato di sensi tanto delicati. Subito impregnato di profumi, non perde alcun sordo rumore, e perché comunichi con gli alberi, i suoi nervi si legano alle nervature delle foglie». Allora si mette a caccia del lupo sull’altopiano di Canjuers, cercando il sapere del vivere selvatico, nel parco nazionale di Yellowstone, cammina sui passi dell’orso, fa un «tracciamento ecosensibile» in Kirghizistan, negli altipiani steppici, dove scruta la pantera; ma osserva anche la «cosmologia» del lombrico, che vede i nostri rifiuti, i nostri sprechi, come un banchetto. Il neo naturalista, al contrario del naturalista classificatore è interessato a «una migliore coabitazione tra gli esseri viventi». Tracciare è l’unico modo per riavvicinarsi alla vita biologica, «consiste nel far riaffiorare in noi un frammento del nostro biogramma umano», una cosa che Morizot definisce «un atto di diplomazia» nei confronti del punto di vista degli animali selvatici, degli alberi che comunicano, per «inventare migliori relazioni con loro».