Atom Egoyan definisce Guest of Honour una «investigazione emozionale del rapporto tra un padre e una figlia»: lui, Jim (David Thewlis) lei, Veronica (Laysla de Oliveira) rimasti soli quando la madre è morta di cancro e lei era piccolina. La storia inizia quando il padre non c’è più, è morto chiedendo che il suo funerale venisse celebrato in una chiesa da un prete che neppure lo conosceva e che alla figlia chiede qualcosa per la sua commemorazione.

TRA I MOLTI frammenti di ricordi e di punti di vista, questo Rashomon edipico di apparenze che smentiscono sé stesse in forma di confessione va avanti e indietro nel tempo, riporta ai vissuti personali dei due protagonisti e a quelli comuni che nello sguardo di ciascuno assumono diversi significati. Compositrice e insegnante di musica la giovane donna è stata in carcere con l’accusa di avere abusato dei suoi studenti minorenni. Non si è difesa, non ha negato, anzi è quasi felice di essere là rinchiusa. Il padre è ispettore sanitario, ossessionato dall’igiene, controlla cucine e servizi dei ristoranti, ne avrebbe voluto uno suo ma la morte della moglie lo ha costretto a altre scelte. Sembrano uniti invece sono soli, sembrano conoscersi invece sono delle isole.

NON È LA PRIMA VOLTA che il regista canadese esplora questa relazione, c’erano un padre e una figlia in conflitto anche in uno dei suoi film più belli come Il dolce domani, stavolta però sono al centro, ciascuno ha il suo segreto, la sua voglia di espiazione. Già perché quello che Egoyan costruisce è una sorta di puzzle intorno a un senso di colpa, potremmo essere dalle parti di Bonjour tristesse – o forse anche alla crudelissima ragazzina che era Elle (di Verhoeven) e invece siamo all’espiazione. Del resto: c’è o non c’è un prete – un po’ meno sfumato dello psicanalista- ad ascoltare?

Dall’assenza del padre scopriamo la figlia, il racconto dell’uomo è lo specchio della sua vita, un gioco di riflessi e di non detti, seri, dolorosi, distruttivi accumulati nel lutto, nelle perdite, nei malintesi dei silenzi. Quella distanza – tra genitori e figli, tra adulti e bambini – che si alimenta negli errori dei primi (magari per eccesso di protezione) e nelle distorsioni sentimentali dei secondi. Egoyan è un narratore non lineare, che predilige la moltiplicazione percettiva e della memoria su superfici digitali, sulle immagini che rimbalzano all’improvviso fuori dal proprio tempo. Può essere affascinante e anche paradossale, rispetto a altri lavori però questo Guest of Honour sembra fin troppo programmato, condotto per arrivare dove deve, soffocato dalla colpa – reale o presunta che sia – e dalla conseguente autodistruzione che comporta.

È COME se ogni passaggio non sorprendesse l’altro ma lo banalizzasse, persino l’uso dei cellulari, come gesto di controllo oltreché di rivelazione per cui tutti sono ricattabili e nessuna debolezza è concessa, nemmeno frasi sconnesse da sbronzi. L’impressione è un Egoyan che riprende un po’ se stesso, che ritorna sui luoghi già esplorati con meno piglio e meno intuizione, diluiti nella scrittura che l’immagine non arriva a contrastare.