Si tratta probabilmente della più brusca caduta della valuta sudafricana dopo il 2008. Probabilmente. Perché a seguirne la media storica del suo andamento più recente – a partire cioè da dicembre del vecchio anno – è facile pronosticare una più inarrestabile discesa gravitazionale stricto sensu del rand sino a una sua non tanto visionaria polverizzazione.

Un tracollo di dimensioni draconiane come la presenza nel continente africano di Pechino che con la sua galoppante ingerenza economico-finanziaria (ormai nota) e presto monetaria (come dimostra la recente adozione in Zimbawe dello yuan fra le valute che hanno corso legale nel paese) ha inclinato i sistemi economici dei Paesi africani verso un caotico black-out. Il rallentamento della produzione industriale cinese e i conseguenti cali dell’indice delle materie prime e deflusso dei capitali sui mercati finanziari non poteva non frattalizzarne l’effetto sulle valute dei Paesi esportatori.

Ma se in generale dietro l’indebolimento delle monete vi è evidentemente la longa manus della Cina, nel caso delle economie africane ad aggravare lo scenario sono anche fattori interni che contribuiscono a dare più rapido corso all’effetto cascata di questo deus ex machina made in Cina.

È il caso del Sudafrica che si contende il titolo di più grande economia dell’Africa con la Nigeria a ben vedere più per ciò che le economie degli altri Paesi del continente non sono che per ciò che effettivamente essa può vantare. Lunedì scorso il rand è precipitato a più del 9% toccando quota 17,9950 contro il dollaro, vale a dire – al momento – il livello più basso mai registrato da ottobre 2008.

Se da un lato i timori che la Cina voglia indebolire la propria valuta per aumentare la sua competitività delle esportazioni stia giocando un ruolo di spessore, dall’altro però resta il fatto che il collasso del rand si è evidenziato in maniera preponderante già a dicembre scorso.

Quando la valuta ha registrato minimi a più del 5% a seguito della mossa a sorpresa con cui Jacob Zuma ha silurato nel giro di poco più di una settimana ben due ministri delle finanze senza fornire chiare motivazioni. Con il Tesoro che ha visto l’alternarsi di Nhlanhla Nene dopo 18 mesi di incarico, David Van Rooyen dopo soli quattro giorni fino alla reintegrazione di Pravin Gordhan già ministro delle finanze dal 2009 al 2014. Gli scenari preoccupanti che si prospettano – tra cui il rischio di un aumento dell’inflazione e probabilmente il conseguente aumento dei tassi di interesse da parte della South African Reserve Bank (Sarb) – sembrano però non trovare una efficace risposta della classe politica chiaramente impantanata nell’incapacità di fornire soluzioni idonee.

E d’altro canto proprio la sfiducia degli investitori nell’amministrazione Zuma non fa che alimentare una più repentina débâcle di una economia già fragile.
In un intervista all’emittente pubblica Sabc di domenica passata, Zuma ha stigmatizzato come «eccessiva» la reazione dei mercati e dei cittadini (a dicembre in migliaia scesi in piazza a protestare per le strade delle principali città) alla sua decisione di rimuovere il ministro Nhlanhla Nene. Parole che i più critici interpretano come riprova dell’incapacità del governo di risolvere le debolezze politico-economiche strutturali che hanno portato ai recenti declassamenti delle agenzie di rating e tenuto la crescita economica annuale al di sotto del 2% negli ultimi cinque anni.