Nel 1959 Ernesto De Martino giunse in Salento per la nota spedizione etnografica sul tarantismo (La terra del rimorso, 1961), un complesso mitico-rituale la cui storia e il cui significato ha interessato fin dal Medioevo medici, studiosi e autorità religiose. Secondo la tradizione salentina dell’epoca, un profondo malessere colpiva le donne, ma anche gli uomini, che erano stati morsi da un ragno. A farli uscire da questa sorta di «disordine» mentale era un rituale basato soprattutto sulla musica suonata da alcuni specialisti che avrebbero provato vari ritmi e melodie fino ad individuare quello giusto, quello che avrebbe permesso alla «posseduta» di ritornare alla normalità.

Non conosciamo esattamente il momento in cui avvenne, ma è certo che il cattolicesimo individuò san Paolo (29 giugno) come eroe liberatore da questo particolare male, visto il potere del santo di guarire dai morsi dei serpenti velenosi, capacità da lui trasmessa ai membri della sua «famiglia», conosciuti come sanpaolari.
Dopo le analisi di De Martino e della sua equipe il tarantismo non fu più visto come un semplice disordine mentale, ma come un ordine simbolico: un pensiero e una pratica popolare che tentavano di conferire senso e un orizzonte di trascendimento a quella che era la sofferenza esistenziale e sociale delle donne e delle genti salentine.

Da quel 1959, dalla «spedizione salentina», prende le mosse l’ultimo lavoro di Giovanni Pizza Il tarantismo oggi (Carocci, 2015, euro 26), uno studio che va molto oltre l’oggetto dichiarato nel titolo e che racconta dei modi e delle forme in cui il tarantismo (e l’intera antropologia di De Martino) sia penetrato nelle dinamiche identitarie e culturali salentine divenendo così un nuovo terreno di ricerca di un’antropologia definita politica, o pubblica.
Il volume racconta di un complesso processo in cui il campo etnografico si è esteso fino ad inglobare e coincidere con il processo intellettuale, storico e soprattutto politico che ha impegnato il Salento dalla pubblicazione del capolavoro di De Martino e fino ai giorni nostri. Soprattutto dagli anni Settanta, quando altri antropologi e studiosi locali hanno cominciato quel lungo processo di risignificazione del tarantismo che ha portato quasi a ribaltare i risultati teorici de La terra del rimorso. Il Salento infatti, oltre al suo più noto e accattivante soundscape possiede anche un poderoso bookscape che ha segnato e a sua volta alimentato il cambiamento. I vari discorsi che si sono succeduti sul tarantismo (quello medico, storico, folklorico, poetico, politico…) sono sempre stati accompagnati da una retorica di costruzione e di negoziazione dell’immagine del Salento, una sentita ricerca di identità e affermazione, anche quando questa sia stata negata, esaltata o derisa.

A partire da una rivisitazione delle teorie di De Martino operate da Gilbert Rouget (Musica e trance, 1980) e poi George Lapassade (Intervista sul tarantismo, 1994) si è sviluppata localmente – e il saggio di Pizza lo analizza con rigorosa puntualità – una visione del tarantismo che, capovolgendo quella demartiniana, allontana il rituale coreutico-musicale da ogni legame con la sofferenza sociale ed esistenziale e lo fa assurgere a tratto identitario positivo, a corollario di una «gioiosa catarsi estatica», a forte valore estetico, grazie anche alle sue naturali potenzialità spettacolari (ma quale rituale in fondo ne è totalmente privo?).

Così, in un continuo gioco di specchi tra «antropologia, politica, cultura», come recita il sottotitolo del volume, vediamo come la reinterpretazione locale del tarantismo, la riattivazione della sua memoria antropologica sia stata in grado di rilanciare il Salento come un «prodotto tipico»: da terra del rimorso a terra di «rinascita», dove il mito del ragno, cambiando di segno, ha voluto far esplodere tutte le potenzialità mediterranee, comprese quelle turistiche e commerciali, che aveva nella sua simbolica rete. Così, proprio negli anni in cui il Salento veniva «rapinato» della sua cultura etnografica, dei suoi olivi secolari, negli anni in cui i suoi particolarissimi muretti a secco difensivi e i suoi trulli cadevano o venivano dismessi per mancanza di una capace manodopera, le amministrazioni locali «inventavano» un altro aracnide che sarebbe riuscito a liberarle dal male attraverso lo sviluppo economico, turistico e culturale. È in quegli anni che nascerà la Notte della Taranta, il noto festival musicale estivo che coinvolge Melpignano e una ragnatela di altri centri salentini.

Il volume di Pizza, nelle tre parti in cui è diviso, non osserva solo il fenomeno del tarantismo, ma indaga anche lo stesso «sguardo» dell’etnografo De Martino, evidenziando sia i suoi legami con Antonio Gramsci sia quegli aspetti dei due intellettuali che ne fanno ora più che mai due casi «buoni da ripensare» per l’antropologia. Fu infatti con la lettura di Gramsci che De Martino «maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica culturale gramsciana potesse coincidere con le forme del ‘viaggio’, dell’’etnografia’: la ’prassi’ della ricerca antropologica» e, inoltre, interpretò etnograficamente il progetto gramsciano di un’antropologia degli intellettuali. Convinzione che divenne anche una espressa condanna agli studiosi di folklore e di tradizioni popolari che, nelle loro analisi avessero separato una dimensione e una cultura colta e egemone da una popolare e subalterna.

Attraverso l’analisi del più grande antropologo italiano, dei suoi legami con la filosofia e la cultura gramsciana, della sua epocale spedizione salentina, Il tarantismo oggi mostra in maniera esemplare le dinamiche che sottendono la costruzione di un’identità, di una cultura, perché – come scrive l’autore – «la cultura è sempre una produzione, una ’invenzione’, e l’identità come essenza intima semplicemente non esiste». Con buona pace di quanti, soprattutto oggi, cavalcando l’onda di mitologici principi identitari, vorrebbero credere e far credere che «la tradizione» sia un bene immutabile ereditato da lontani antenati e che abbiamo il dovere di conservare intatto, nonostante la mutevolezza del mondo circostante. Perché la cultura «non (è) come qualcosa che si ha, si eredita, fissato in un’arcaica quanto indefinita ’tradizione’, ma (è) come un patrimonio che costruiamo tutti insieme come bene collettivo. L’identità quindi non è un dato fisso, una ’essenza’, ma un preciso progetto politico condiviso»