Quei «ragazzi di Torino che sognavano Tokio e andavano a Berlino» sono poi passati per New York e per Cuba e chissà quanti altri posti ancora. Alla metà degli anni ottanta Renzo Badolisani ci fece pensare che non tutto era andato perduto, che c’era ancora spazio per un cinema italiano realmente nuovo. Ma certo non fu facile affermarsi per i cineasti di quella generazione che non volevano piegarsi alla nuova moda della corruzione e delle clientele. Dopo aver realizzato negli anni successivi Cinecittà…Cinecittà e (1992) e Tornare indietro (2002) arrivano su Rai Premium quattro puntate firmate da lui della serie poliziesca Isola Margherita in onda alle 15 del 31 luglio, e poi il 3, 4 e 5 agosto, interpreti Debora Caprioglio Alberto Gimignani nella parte di un inviato speciale e alcuni attori cubani famosi come Jorge Perugorria (Fragole e Cioccolato, tra gli altri). La serie girata a Cuba arriva proprio in un momento di grande attualità in cui parecchie cose stanno cambiando con la riapertura dei rapporti diplomatici con gli Usa. Ci facciamo raccontare dal regista qualcosa delle sue esperienze internazionali che il suo esordio suggeriva.

Da tre anni ormai vivi a New York, sei stato lungimirante, vista la situazione in Italia 

Ci sono sempre tanti fattori che portano a una decisione. Io prima di partire stavo finendo un piccolo film, Il regista, una specie di diario intimo. Cercavo di raccontare che vita si poteva fare a Roma che, come tanta gente del cinema è la città di elezione. Mi ero aggrappato a questa città che ho tanto amato, ma negli ultimi tempi la sofferenza era maggiore, non mi trovavo in sintonia con gli altri registi della mia generazione, con l’ambiente del cinema e della televisione, non ci si capiva più, mi sentivo emarginato. Poi c’è stata l’occasione di spostarsi.

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Non avevi il mito dell’America come tanti della tua generazione? 

Non sono cresciuto con questi miti. Quando nasci in un posto come la Locride, in una famiglia lontana dai sapori borghesi… così come non sono mai stato un cinéphile, per poterlo essere devi essere un po’ più borghese. Sei «spettatore», non sei cinéphile, come mio padre che si vedeva tre o quattro film a settimana. Conoscevo l’America, ero venuto tante volte e c’era stato un impatto positivo. La cosa fondamentale in America è il concetto di libertà che qui è qualcosa che ha un senso.

Raccontami l’avventura cubana 

All’inizio la produzione Tiber aveva contatti con il Cile, avevano realizzato puntate di musica latinoamericana per la Rai, siamo partiti dall’Italia in piena estate e piombati nell’inverno più cupo, poi dopo qualche settimana si è deciso di girare a Cuba e ci ha accolto nuovamente il vento caldo dell’Havana. Il drappello italiano era composto di cinque persone, il regista i due attori e due delegati di produzione. Le sceneggiature erano già state scritte, quattro episodi di genere. Si tratta di un poliziesco avventuroso, così come la rivedo ora mi sembra che abbia anche un che di surrealista, di astratto. Ogni tanto qualcuno che ha visto i miei film compreso Il regista che non è finito, dice: «c’è troppo Renzo in queste cose», ma non si rendono conto che la mia formazione non è di Centro sperimentale, io vengo dalle arti visive degli anni ’70 quando c’erano le performance, la body art e gli artisti mettevano se stessi nell’opera. Quando mi offrirono questa serie dissi a me stesso: voglio proprio vedere se uno con la mia formazione che cosa è capace di fare. Sono rimasto un po’ deluso, ma rivedendolo invece mi devo ricredere: Badolisani c’è. Se lo guardo tra le pieghe è un po’ Mondrian, potrebbe anche essere divertente.

Perché si chiama Isola Margherita? 

Doveva avere una collocazione simbolica. A Cuba si è subito posto il problema di come adattare quelle scene complicate con elicotteri, canotti. Gli elicotteri sono stati depennati per primi. Nella situazione di Cuba era impensabile, i russi erano appena andati via, eravamo all’inizio del periodo especial, nel pieno delle difficoltà, peraltro c’era stato anche un tifone. Dopo un primo giro per l’Havana vecchia mi è venuto il magone, altro che la Calabria degli anni ’50. Quello è stato uno dei periodo peggiori perché in questi ultimi anni la situazione è molto migliorata.

Muovere 170 persone di troupe senza nulla… 

Noi del cinema siamo un po’ invasati. Passato il primo impatto mi sono dovuto ricredere, i cubani hanno dimostrato che ci sapevano fare molto bene. Noi in America abbiamo tutti questi cellulari e non riesci a fare una telefonata, non rispondono mai, c’è sempre una segreteria. Io già sono nato in un posto dove non c’era il telefono, noi il telefono lo abbiamo avuto a Torino negli anni ’70 quando siamo arrivati lì dalla Calabria, eppure siamo cresciuti lo stesso.. Abbiamo fatto quattro film all’Havana dove nessuno aveva il telefono a casa, eppure le persone erano tutte sul set all’ora stabilita, andavano ad avvisare di persona. Da un lato ritrovavo le atmosfere della mia infanzia, dall’altro canto mi è molto piaciuto, non c’era internet, cartelloni pubblicitari, non c’erano giornali. Era un effetto benefico. Mi piaceva vedere ogni tanto qualche scritta, qualche murales. In ogni caso non doveva essere una Cuba riconoscibile. Io volevo fare un latinoamerica da cartolina, come noi lo immaginiamo. Ma vedevamo solo facciate distrutte, non c’era nulla da cartolina. Poi con l’organizzatore locale e con l’aiuto dell’Icaic e un accordo di service con la televisione cubana e persone che lavoravano sui set internazionali ce l’abbiamo fatta. Volevo scrivere un libro, intitolato Malecon, dopo sette mesi ho pensato che forse di Cuba non avevo ancora capito niente.