«Papà, ma se un giorno ti dicessi che sono … omosessuale?». «Che paura, pensavo che mi dicessi comunista!». Solo Checco Zalone, forte dei 47 milioni del film precedente, Che bella giornata, si può permettere una battuta così in un film, inoltre, prodotto da Pietro Valsecchi e distribuito da Medusa. L’Italia è così. Nessuno parla più di operai e di padroni, figurarsi di comunisti, e arriva Checco Zalone che pur dichiarandosi lontano da ogni ideologia, costruisce tutto il suo nuovo film, Sole a catinelle, diretto da Gennaro Nunziante che lo ha scritto assieme a lui, come i precedenti, su quel che resta dell’Italia di un tempo dopo vent’anni di berlusconismo. Con tutti i modi di fare, di dire e di comportarsi portati dal medesimo.
«So’ comunisti, a papà!», se ne esce a un certo punto Checco col figlioletto Niccolò, il bravissimo Robert Dancs, per descrivere le stranezze della famiglia di ricchi composta dalla bella Zoe, l’inedita Aurore Erguy, e il suo ragazzino con problemi di mutismo selettivo, Ruben Aprea, avuto da un regista di film impegnati, che sta girando un delirante Eutanasia mon amour.
Il contagio del comunismo, visto come una malattia ideologica dei ricchi, è il principale terrore di Checco. Perché Checco non è altro che un bravo ragazzo del sud cresciuto dentro vent’anni di berlusconismo vissuti nel nordest, a Vicenza, che ne hanno fatto quello che è, un venditore di aspirapolvere che aspira a una vita da vip, quindi nella crisi massacrato dai prestiti a strozzo e da Equitalia («Siamo di Equitalia» – «Noi siamo cattolici, qui!»), mezzo mollato anche dalla moglie operaia in lotta, la deliziosa Miriam Dalmazia, che deve però rispettare la promessa fatta al suo ragzzino: «Se sarai promosso con tutti dieci papà ti regala una vacanza da sogno». E quando Niccolò prende davvero tutti dieci in pagella, anche in condotta visto che non dice nemmeno una parolaccia, Checco è costretto a portarlo in vacanza. Prima in un paesino sperduto del Molise, si tratta di Provvidenti, abitato nella realtà solo da 80 anime, a casa della tirchissima zia Ritella, Matilde Caterina dalla pronuncia molisana impeccabile, dice «rumaure» per rumore, poi, ma per un puro caso, nelle ville da ricche della bella miliardaria Zoe. Lì conoscerà la vita da sogno che ha immaginato per tanti anni, tra amministratori delegati truffaldini, Marco Paolini e simili Briatori, Augusto Zucchi, mentre la moglie sta lottando per il posto di lavoro nel vicentino proprio nella fabbrica di proprietà di Zoe amministrata, malamente da Marco Paolini.
Erano anni che non si vedevano le bandiere della Cgil, i padroni e gli operai in un film italiano, per non dire in una commedia. Erano anni che non si parlava di comunisti al cinema. Zalone e Nunziante si sporcano le mani col comunismo, con la crisi, con vent’anni di berlusconismo che hanno formato il loro assurdo protagonista che pensa sempre positivo, che è sempre ottimista, anche se Equitalia gli ha tolto tutto. Lo mettono di fronte agli amministratori delegati che stanno spolpando il paese portando i soldi alle Cayman, ai vari «Cortina Incontra» spostati a Portofino, con Edoardo Camurri come presentatore della serata. Lo fanno entrare in una loggia massonica deviata senza che nulla abbia capito, al punto che confonde le logge con le masserie pugliesi.
Checco viaggia in un’Italia dalle idee poco chiare, vecchissima come la casa della zia Ritella, ma con la foto di Papa Bergoglio in bella evidenza, e modernissima, con le opere finto Cattelan ben esposte. Può dormire in un letto dove ha dormito Hegel, anche se non è un grande «estimatore di Eva Hegel», e spiegare cosa sia un Taeg. Le sue contraddizioni, la sua incultura, sono le piaghe del paese, costretto a scegliere, come la Zia Ritella, tra staccare la spina dell’alimentatore che la tiene in vita per risparmiare, o non staccarla pagando una bolletta più salata e rovinarsi. Non è che Checco nel corso del film si trasformerà in un comunista militante o dimostrerà davvero di aver capito, ma almeno ricostruirà la sua famiglia, salverà i sentimenti importanti salvando anche la fabbrica della moglie dal fallimento.
Chissà se questo delizioso, divertente, allegro, profondo piccolo film su chi siamo e come stiamo vivendo farà i grandi incassi del film precedente. Dimostrerebbe solo che un pubblico esiste per una commedia magari imperfetta ma più intelligente e nuova del solito. Di certo è un passo avanti sia per Nunziante che per Zalone, qualcossa di più strutturato e complesso con cui confrontarsi, diciamo dalle parti di Una vita difficile di Dino Risi con Alberto Sordi. Cioè un viaggio nelle contraddizioni di un paese in crisi dove alla fine si dovrà scegliere da che parte stare. Non tutto è riuscito e il film soffre, specialmente nella parte centrale, di qualche ovvietà, la gag della cucina vegana, la partita a golf, qualche attore di peso non guasterebbe; ma non perde mai di ritmo, è pieno di battute e di gag visive, spesso costruite, alla Tex Avery, una dentro l’altra. Come quella sulle vacanze in Molise, scorretta, ma fantastica: “Se un papà porta il bambino in vacanza in Molise è… un coglione!».
C’è un po’ di buonismo, ma non diventa mai quel buonismo veltroniano ormai fuori moda nell’era Renzi, e il rapporto tra Checco e il bambino funziona, è credibile. Tutto il film, inoltre, è costruito come un musicarello se non proprio un musical, con una festa di canzoni e di rimandi musicali divertenti che diventeranno dei tormentoni – «Superpapà, è nella merda, ma ce la farà»; «Forse ti ha offeso la lavastoviglie, tu con le mani fai meraviglie, forse ho sbagliato se non ti ho mai detto che per me c’era un unico oggetto e quello eri te».
Per non parlare della versione Gipsy King della sua celebre Gli uomini sessuali che diventa «Gli hombre sessuali». O delle rielaborazioni dei temi di Piero Piccioni per i film di Alberto Sordi. Resta il problema degli incassi: con 1200 sale quanti milioni fara? 20, 30, 40? Siamo comunisti e non ce ne frega un…