«La mia vita è una scoperta. Cerco sempre un senso a ogni un avvenimento. La prima volta che vidi il fuoco, mi bruciai e fu magnifico. Era caldo e invitante e pensai: ’E se lo toccassi? Forse il calore mi entrerà dentro’. È così che ho scoperto il mondo e sono arrivato fin qui». In questo modo Guillermo Vilas si introduce nel documentario diretto da Matías Gueilburt, Vilas: Tutto o niente, visibile da qualche giorno su Netflix. Un film sull’atleta argentino che negli anni ’70 e ’80 fu uno dei grandi protagonisti del tennis mondiale. Il ragazzino che a sei anni iniziò a colpire ossessivamente la pallina contro un muro del garage di casa, con l’unica restrizione materna che avrebbe potuto rompere una sola lampadina al giorno; il figlio che contro il parere dei genitori si intestardì nell’intraprendere una carriera ritenuta poco redditizia; il mancato avvocato in un paese nel quale gli idoli erano pugili come Carlos Monzón, piloti di Formula 1 come Carlos Reutemann e calciatori come Mario Kempes.

A DIFFERENZA dei più sperimentali e affascinanti John McEnroe – L’impero della perfezione di Julien Faraut e Subject to Review di Theo Anthony, questo documentario scorre in modo assai scolastico tra materiali di repertorio, audiocassette inedite registrate dallo stesso Vilas sin dal 1973 (ben quarantasei!), e poi interviste ai campioni, chiamati a raccolta per le dichiarazioni di rito su quanto fosse forte, bravo e innovativo il quattro volte vincitore di prove dello Slam.
Ad accorrere sono la leggenda Rod Laver, Boris Becker, Mats Wilander, la sua connazionale Gabriela Sabatini, Björn Borg, la nemesi che gli impedì di essere il dominatore incontrastato negli anni Settanta, Ion Tiriac, l’allenatore manager giunto dalla Romania per guidarlo al successo e, ovviamente, Roger Federer e Rafael Nadal, gli eroi del presente che hanno contratto un debito inestinguibile con Vilas e Borg, con Jimmy Connors, Ilie Nastase, Vitas Gerulaitis, Adriano Panatta e John McEnroe, solo per menzionare alcuni dei tennisti che compaiono nel documentario e che in quell’epoca trasformarono il tennis da sport d’élite a fenomeno pop.
Dunque Vilas, il ragazzo che tocca il fuoco, che trae ispirazione da Woodstock, che scrive poesie, il capellone che ascolta Jimi Hendrix, il mancato numero 1. Ecco, proprio sul vertice della classifica mondiale il racconto cambia direzione.

IL TITOLO e i primi minuti del film alludono a un sol uomo, alla sua crescita e consacrazione, incasellando i diversi punti di svolta che mutano il destino aperto di un’esistenza in un percorso a senso unico, in una traiettoria che poteva procedere solo nella direzione del trionfo. Poi la narrazione cambia e dalle ossessioni del nativo di Buenos Aires si passa a quelle di un giornalista, Eduardo Puppo, che cerca di portare avanti la causa persa di Vilas, cioè dimostrare che in alcuni anni (soprattutto il 1975 e il 1977, quello delle 50 vittorie consecutive) fu in testa alla classifica mondiale al contrario di quanto sostenga l’Atp. Ed è proprio qui, su questa volontà di ristabilire una verità storica, che questo prodotto perde inesorabilmente quota. Non riesce più a rintracciare le oscurità, i demoni che si agitano sia nel campione che nell’inaspettato sostenitore, gettando acqua su quel fuoco che si voleva toccare.