La schiavitù ha caratterizzato il genere umano per migliaia di anni. Ha preceduto il capitalismo, il colonialismo e iniziava a sgretolarsi quando la nuova coscienza occidentale ha avanzato gradualmente il diritto universale dell’umanità. Thomas Casadei, in Il rovescio dei diritti umani (DeriveApprodi, pp. 133, euro 15), precisa che la fine giuridica della schiavitù non si è tradotta in una sua completa cancellazione. Tutt’altro. Nel suo ricco dialogo con Étienne Balibar, contenuto nella seconda parte del volume, viene sottolineata a più riprese l’attualità di un fenomeno sollecitato da un inquietante «ritorno della razza» e da un solido pregiudizio. Balibar si spinge oltre e paventa un «radioso avvenire» del razzismo e di nuove forme di discriminazione etnica, religiosa, sociale e sessuale.

LA CELEBRE DISTINZIONE dottrinale tra la libertà degli antichi e la libertà dei moderni si collocherebbe in un sentiero parallelo e schematicamente simmetrico alle ragioni della schiavitù. Si può parlare infatti anche di una schiavitù «antica» e di una schiavitù «moderna». La prima, sviluppata sulla base dei principi aristotelici, si fondava su un presupposto «naturale» e non scandalizzava l’idem sentire dell’epoca; la seconda, quella dei moderni, traeva fondamento da motivazioni di ordine «sociale», ma era anzitutto il colore della pelle, o come direbbero i fautori della Critical Race Theory, l’invenzione della «bianchezza come proprietà» a rinvigorire un «istituto imbarazzante» che violentava i corpi e le menti in nome della razza trionfante. Libertà e schiavitù si incrociavano.
Le narrazioni borghesi in favore della tolleranza, delle libertà individuali e di una dignità umana costituzionalmente garantita non mettevano in discussione la pigra Weltanschauung dell’uomo bianco, occidentale e proprietario. Servivano altri occhi. Con la «metafora del vedere», enunciata da Barbara Flagg, sarebbe possibile, suggerisce Casadei, ridisegnare i rapporti interpersonali, il diritto e il potere.

LA SCOMPARSA della schiavitù legale non deve trarre in inganno. L’autore, sulla scia di Balibar, scorge l’esistenza di una schiavitù contemporanea. Se oggi nessuno può invocare un titolo di proprietà nei confronti di una «non persona», continuano a manifestarsi i segni di un grave squilibrio. Le donne, i bambini, l’uomo-merce imprigionato nei luoghi manovrati dal capitale, il migrante e la sua interiorità spezzata, i rom e i ragazzi delle banlieue, ma anche i figli della precarietà, che a voce bassa disprezzano il dominus di turno, simboleggiano l’«essere altro»

COSÌ LA NUOVA SCHIAVITÙ acquista i tratti della vulnerabilità e riproduce l’«ontologia della dipendenza». Balibar rimprovera al capitalismo di aver generalizzato e perfezionato questa tipologia di violenza. Solo sposando con intensità emotiva e intellettuale il punto di vista delle vittime e rilanciando una nuova prospettiva del cosmopolitismo è possibile, per il filosofo francese, respingere il ritorno della razza.