Fra il 1948 e il 2018 in Italia sono stati realizzati 337 film incentrati sulle mafie, e il secondo decennio più prolifico in questo genere, dopo quello degli Anni di piombo, è proprio quello che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Alla rappresentazione delle organizzazioni criminali italiane è dedicato Lo spettacolo della mafia – storia di un immaginario fra realtà e finzione (Edizioni Gruppo Abele, 204 pp., 15 euro) di Marcello Ravveduto, un’indagine che ha al suo cuore proprio il rapporto indissolubile fra realtà e finzione, il loro continuo rispecchiamento l’uno nell’altra, e che a partire da questo si interroga sulla produzione dell’immaginario in tema di mafie. Un «regno degli spettri», le definisce Ravveduto, «che eccita la morbosa curiosità dell’ignoto. Accettare il fantasma significa ammettere l’esistenza di un altro mondo che vive nel riflesso del reale; un doppio che ha la caratteristica dell’immagine mentale».

Protagonista del libro è dunque questo regno degli spettri, e gli «specchi» che ne restituiscono il riflesso distorto in una ricognizione del racconto della mafia attraverso i media – dal cinema alla narrazione di sé che fanno i camorristi attraverso i social media – che parte dalle sue origini. E cioè dal canone letterario delle «classi pericolose» che dall’ottocento istituisce quell’insieme di miti capovolti, archetipi, immagini che popolano il senso comune e allo stesso tempo gli danno forma che da sempre caratterizza la narrazione della mafia.

UNA RICOGNIZIONE di questo genere «crossmediale» che ne è anche una catalogazione e una storiografia che attraverso i titoli cinematografici e televisivi consente di leggere in controluce anche la storia del Paese. Ad esempio nei picchi di interesse per un’associazione mafiosa rispetto a un’altra – fino al fenomeno Gomorra è la mafia siciliana a primeggiare nel «gradimento» nazionale con film e serie tv, fra cui il fenomeno di massa della Piovra – o nei titoli prodotti all’indomani di eventi traumatici come la strage di Capaci o l’omicidio di Pio La Torre. Argomenti quanto mai attuali in questi anni in cui i film e le serie legati alla criminalità organizzata sono di nuovo tantissimi, che girano intorno a un immaginario stereotipato e folkloristico della mafia o al contrario vi si oppongono come i recenti lavori di Franco Maresco e quelli realizzati negli anni novanta insieme a Daniele Ciprì – Lo zio di Brooklyn (1995) e Totò che visse due volte (1998) – di cui Ravveduto scrive infatti che «rappresentano l’antitesi del mafia movie. Il totale antinaturalismo è l’unico modo per capire la mafia come un pensiero che si condensa in immagini senza parole».

A ROMPERE il «primato» di Cosa nostra nell’immaginario cinematografico e seriale – e a scardinare il duopolio Rai/Mediaset – è l’arrivo di Sky che produce prima Romanzo criminale – La serie e poi Gomorra: l’oggetto spettacolare che con il suo successo (anche all’estero) più ha influenzato il racconto della malavita italiana negli ultimi anni: «La potenza della fiction è tale da essere riuscita a creare un nuovo paradigma interpretativo che ha rovesciato il rapporto fra reale e immaginario: viene prima Gomorra o Napoli?». E ancora: «Se prima le cartoline di Napoli erano il sole, il mare, la pizza, il Vesuvio e Pulcinella, ora sono le Vele, le scissioni, la munnezza, i baby criminali e le stese».

Nella sua ricerca l’autore prende anche in considerazione la produzione musicale, da quei neomelodici che fanno proprio il punto di vista mafioso alla recente predilezione per la trap di nuove generazioni che elaborano proprio il folklore «gomorresco». E si interroga anche su come questo immaginario è stato recepito nel corso degli anni all’estero – sulla scorta di film come Il padrino e Gli intoccabili e oggi appunto di Gomorra – dove lo stereotipo distorto del boss, dell’omertà, dell’«onore» vengono usati come marchi commerciali e per promuovere varie catene di ristorazione. L’apoteosi grottesca della cartolinizzazione della malavita italiana da cui però non è immune la produzione spettacolare nazionale, di cui Lo spettacolo della mafia offre proprio uno strumento di decodificazione.

NELLA SUA PREFAZIONE al libro, Enzo Ciconte sottolinea l’importanza della finzione per la mafia stessa: non nella banale constatazione del piacere di Riina nel guardare la fiction su di sé o perché le case dei camorristi ricalcano quella di Tony Montana in Scarface, ma osservando come l’invenzione sia al cuore dell’immagine di sé delle mafie, quanto e più della verità, come nel caso dei Beati Paoli nella mafia siciliana. Frutti della fantasia che «non per questo sono meno importanti che se fossero esistiti veramente. Il loro tempo immaginario è più potente del tempo storico realmente vissuto».