Un’intervista telefonica poco prima di un sopralluogo a L’Aquila. In un’estate ricca di concerti ed impegni, Paolo Fresu è nel capoluogo abruzzese per verificare i siti dove si terrà la quarta edizione della rassegna «Il jazz italiano per le terre del sisma» (2 settembre). La manifestazione sarà presentata venerdì 27 luglio a Roma, al Ministero dei Beni Culturali e Ambientali alla presenza del neoministro Alberto Bonisoli, del trombettista in qualità di direttore artistico e presidente della federazione Il Jazz Italiano (che riunisce varie associazioni tra cui quella dei jazzisti, MIDJ, e degli organizzatori, I-Jazz), di sindaci e rappresentanti della Siae e del NuovoImaie.

Ma parliamo con Paolo Fresu del suo festival, Time in Jazz, che per la 31esima volta vivrà nella natìa Berchidda e in varie località (8-16 agosto). Dopo molti anni non ci sarà un tema-guida stringente ma un «tema elastico», come dice il musicista e organizzatore, basato sul numero dell’edizione e che durerà fino alla 33esima. È un’opportunità di parlare anche della Sardegna, dei giovani musicisti, del rapporto tra pubblico e artisti e tra «global» e «local». Anche in quest’occasione Paolo Fresu si conferma artista e intellettuale interessato a trasformare in positivo la società in cui viviamo.

Nel programma di Time in Jazz è significativa la presenza del jazz italiano, con giovani esponenti da Vincenzo Saetta a Giovanni Gaias.
Vogliamo avere una presenza sempre più massiccia di jazzisti italiani. L’anno scorso c’è stato l’esperimento dei volontari-musicisti (da Dino Rubino ad Ada Montellanico) ed è stato un grandissimo successo. Berchidda può spingere sui musicisti italiani perché la gente viene fidandosi di quello che facciamo. Ciò ci permette di avere grande libertà programmatica e i musicisti italiani saranno tantissimi (come Francesco Diodati, Francesco Lento, Stefano Tamborrino …), con propri gruppi e progetti e dopo aver suonato si fermano con vari ruoli e funzioni.

C’è un futuro per le giovani generazioni jazzistiche?
Se ci saranno non «festival-club» ma rassegne che investano su di loro. Giovanni Gaias, berchiddese, faceva il volontario, ha iniziato a suonare la batteria, è diventato un professionista, oggi entra nella programmazione e verrà anche a L’Aquila. I giovani hanno molte capacità però bisogna dar loro delle chances in festival e rassegne, nelle etichette. Bisogna farli maturare nel rapporto con pubblico, organizzatori ma soprattutto altri musicisti. La bellezza di Time in Jazz è questa sorta di luogo-laboratorio in cui giovani e non giovani (c’è anche l’80enne Gegè Munari) si incontrano. Ci sono Enrico Rava, Gianluca Petrella, Vincenzo Saetta, giovani musicisti beneventani che collaborano con Pasquale Mirra, fanno laboratori, si incontreranno con i migranti.

Ce ne vuoi parlare?
Faremo quest’anno un progetto organico per noi importante, pensato dai sassaresi di Theatre en vol: sarà una falegnameria con migranti che vivranno a Berchidda, in rapporto con i paesani e i musicisti. L’idea che nei dieci giorni di Time in Jazz ci sia una convivenza di persone è significativa perché da lì può partire qualcosa per il futuro. Il nostro non è un festival statico: fai (o senti) il tuo concerto e dopo riparti. È un’idea diversa ed è l’unico modo per lasciare un segno sul territorio, un segno profondo nell’architettura urbana e sociale che ti dà quella forza di superare i problemi. La Casara, ad esempio, è uno spazio che abbiamo comprato ed aperto: è museo di arte contemporanea, ufficio e mediateca dell’associazione. Non si può più parlare di Time in Jazz come un festival, è un progetto più ampio.

La rassegna ha una dimensione sonora globale (Usa, Nordafrica, Scandinavia…) però riesce ad esistere in una dimensione «local» senza nessun scivolamento verso il leghismo.
Assolutamente sì. L’idea di avere gruppi di migranti completa quella concezione (global e local). Nel libro del trentennale (Time In Jazz, F.C.Panini, pp.239, euro 40) racconto che a Berchidda in trent’anni di festival non è mai successo un litigio eppure ci sono comunità molto diversificate. È un luogo in cui improvvisamente si vive assieme: nella mensa, nel bar e ciò dimostra la valenza di un progetto sociale di questo tipo. Credo che il nostro investimento sia importante e comprenda anche il racconto di ciò che si vorrebbe essere grazie al linguaggio della musica, uno dei pochi che riesca in un microsecondo ad andare dalle coste libiche a Lampedusa senza barconi. Noi, come tutti i festival, dovremmo avere la responsabilità ogni giorno di sottolineare quanto la musica possa essere fondamentale nella complessa discussione sui temi che conosciamo bene e che ci stanno a cuore.

Sedici comuni coinvolti, oltre a Berchidda, buona parte del Nord Sardegna. Come vedi la situazione della tua isola?
La Sardegna è un continente, come diceva Marcello Serra in un importante libro; difficile parlare di «una» Sardegna, come di «una» lingua. C’è una Sardegna del Nord, dove ci sono disponibilità di economie, i comuni della Costa Smeralda che investono sulla cultura. Ce ne sono altri che hanno bisogno di farsi vedere e sentire. Lo strumento festival è importante, riusciamo a portare migliaia di persone in posti che vivono situazioni economiche difficili. Esiste una Sardegna del Sud che invece sta vivendo un dramma enorme legato a investimenti sbagliati sulla politica del lavoro che non hanno prodotto nessun risultato. Noi non la tocchiamo con Time in Jazz perché l’idea è sempre quella di avere Berchidda come epicentro. Resta il fatto che «una» Sardegna non esiste: in solo 300 chilometri si ha l’impressione di andare come da Roma a Berlino, la storia ci spiega il perché. Quello che vogliamo fare è raccontare perlomeno il Nord della Sardegna, permettendo alla gente di farsi un’idea dell’isola non tradizionale (quella basata sulla costa). Nell’interno ci sono realtà diverse che vanno in qualche modo narrate. Tante volte abbiamo fatto salire sul palco principale persone in difficoltà delle industrie di Porto Torres o di altri luoghi proprio per dare, in qualche modo, dei segnali.