All’inizio è quasi un sussurro, frammenti di frasi, conversazioni banali, parole solitarie che fluttuano qua e là mischiate a esitazione, a qualche punto interrogativo, l’atmosfera che accompagna ogni attesa. Chi sono quelle persone, giovani e meno giovani sui cui volti, e tra quelle parole, si sofferma lo sguardo dell’autore delle immagini? La convocazione è il secondo film di Enrico Maisto, giovane regista milanese rivelato dal bell’esordio di Comandante, una storia familiare – al centro c’era il padre giudice del regista – e legata al tempo stesso al passato del nostro Paese, la lotta armata, gli anni che nel nostro cinema non riescono a trovare una rappresentazione libera da letture «postume», interrogati da chi non c’era, con la libertà di voler scoprire qualcosa che si rivela al tempo stesso intimo e politico.

 

 
Stavolta siamo in un tribunale, quello di Milano, Maisto però non ci rivela, non subito almeno, il processo in questione. Nelle note di regia leggiamo: «Se si guarda con attenzione alle tante immagini di cronaca giudiziaria che negli anni si sono accumulate, anche soltanto nei telegiornali, a margine del fotogramma si scorgeranno loro, i giudici popolari, questi sconosciuti che per volontà del caso hanno contribuito in forma anonima alla storia di tanti processi, per poi ritornare alle proprie vite. Un flusso costante che continua a coinvolgere molti, ma che rimane tutt’ora pressoché ignoto: chi sono? Che peso hanno? Cosa porteranno delle loro opinioni e convinzioni personali al momento di decidere la sentenza?». Sono loro, dunque, i giudici popolari, i protagonisti del film – che da lunedì 15 gennaio inizia un tour con la rassegna Il mese del documentario, prima tappa Roma, casa del Cinema (www.ilmesedocumentaristi.com) – prima e dopo, quando cioè vengono convocati, nel tempo che li separa dal colloquio per la selezione ultima e col giuramento dei sei giudici popolari scelti insieme a supplenti e a sostituti addizionali. Una sessantina di persone che per una giornata sospendono il proprio quotidiano per essere messi di fronte a una responsabilità al di là dei problemi personali: c’è chie ha dovuto assentarsi dal lavoro, chi ha delle preoccupazioni familiari, chi non sa nulla del processo per cui è stato chiamato e prova a cercare una memoria storica italiana «evaporata» digitando sullo schermo del telefonino.

 

 
Maisto nell’unità di luogo mantiene sempre (con l’uso di multicamere) la dimensione corale: non ci sono interviste, nessuno dichiara al microfono qualcosa, le ore scorrono e con essere prende forma una relazione che interroga il rapporto tra l’individuo (il cittadino) e la giustizia e che e apre anche alcuni squarci sulla consapevolezza del nostro passato recente dentro e fuori quell’aula di tribunale.
Il punto di vista dell’autore sin dichiara in questa narrazione polifonica affidata però alle immagini in primo piano (il montaggio è di Valentina Cicogna e Veronica Scotti) e a un suono (magnificamente composto da Massimo Mariani) che cresce progressivamente fino a essere anch’esso protagonista, espressione centrale di delle esitazioni e delle ansie tra chi vi prende parte. È una scelta forte, che diventa poetica e nel confronto con una materia complessa, senza imporvi letture univoche, riesce a rendere la dialettica di partenza, pubblico/privato e le domande che provoca cinema.