In uno dei romanzi più citati in questi giorni smarriti, L’ombra dello scorpione (The Stand) di Stephen King, c’è un personaggio secondario, che peraltro muore in una manciata di pagine, che fa il conduttore radiofonico. Siamo all’inizio del libro: l’epidemia di Captain Trips, l’influenza mortale che sterminerà la maggior parte degli esseri umani, è già in espansione. La consegna delle autorità è di non parlarne, e i conduttori televisivi appaiono esitanti, se non terrorizzati, come se qualcuno puntasse un’arma su di loro fuori campo. Ma c’è la radio. C’è un programma della KLFT a Springfield, nel Missouri, che si chiama “Dite la vostra” e che si basa sull’intervento telefonico in diretta degli ascoltatori (era, del resto, il 1978, e la stagione delle radio si fondava molto, all’epoca, su quello che si chiamava “filo diretto”). Conduce Ray Flowers, che in una mattina di fine giugno si presenta in studio scoprendo di essere l’unico: così, chiude la porta a chiave, apre i microfoni e invita gli ascoltatori a raccontare la verità che nessun altro dice. Ray Flowers non interrompe la trasmissione neanche quando entra un drappello di soldati, con l’esito che immaginate.

E’ un eroe? Non ci piace pensarla così: aveva a disposizione soltanto la propria voce, e le voci degli altri. E quando le piazze si svuotano, le voci possono non solo raccontare, non solo essere compagne della solitudine e della paura. Possono fare come Shahrazàd ne  Le Mille e una notte, laddove le sue storie non servono solo a distrarre il crudele sultano, ma a rappacificarlo con il mondo da cui si sentiva tradito. Non lo distraggono, ma fanno in modo che ascolti punti di vista diversi. Lo aiutano, scriveva Beniamino Placido, “a comprare il tempo. A vivere mille e una notte in più. E meglio”.

La radio accesa mentre il mondo intorno a noi appare avvolto dal silenzio non è un antidoto retorico ma è una forma di resistenza che abbiamo. E’ un tempo difficile dove le parole contano ancora di più avendo una parziale privazione dei gesti che tengono in relazione i nostri corpi, un tempo in cui la paura governa i nostri pensieri ma non deve governare il nostro agire pubblico. Alla medicina il compito di curare, alla scienza il compito di ricercare nuovi vaccini, alla politica il compito di accudire con responsabilità la cosa pubblica e a noi che proviamo a raccontare l’immaginario e il quotidiano spetta il compito di essere ponte, fune e innesto in questi tempi terribili. Come? Accorciando le distanze. In un Paese chiuso la radio può fare miracoli creando una collettività invisibile ma compatta che sfida l’invisibilità della paura e di un virus rispettando le indicazioni di chi ci Governa evitando inutili sospetti o sciocco complottismo. Condividere le paure le rende più innocue e crea uno strato di complicità tra simili che riduce l’egomania montante cavalcata sui nostri profili social. La radio aiuta a dire che si ha paura di morire, di ammalarsi, di non farcela economicamente, di fare i conti con se stessi e i propri fantasmi. Senza opinioni solo con la razionale idea di essere soli. Siamo un mondo stanco, questo è quello che passa dalla voce degli ascoltatori delle nostre radio, stanco e pieno di rabbia, un mondo che avrebbe bisogno di riposo per uscire dalla depressione, un mondo a cui non servono le rassicurazioni di sorta.

Si ripete in modo forsennato che “ne usciremo insieme” così come si ripete come un mantra dopo un attentato che “nessuno cambierà il nostro modo di vivere”, ma la verità è che le guerre e le epidemie hanno sempre modificato i comportamenti di una società e il pericoloso crinale che attraversiamo ci deve far comprendere se il mondo che disegneremo sarà aperto o chiuso.

Ma ci sarà sempre la radio con le sue voci roche o squillanti, lineari o frastagliate e un Ray Flowers di turno a dirci che le nostre storie contano.