Abbi cura di me è il titolo della personale di Gregorio Botta (Napoli, 1953) alla galleria Francesca Antonini di Roma (fino al 3 giugno). Titolo che prende spunto, rovesciandone il senso, dall’installazione Prenez soin de vous di Sophie Calle al Padiglione francese, in occasione della 52/ma Biennale d’arte del 2007. Ma qui siamo in un altro orizzonte di pensiero e di azione.

SE CALLE INTESSEVA il suo paradigma all’interno del proprio vissuto ricorrendo a una pura narrazione, Botta, al contrario, incede per allusioni e sottintesi. La sua inclinazione è quella di lasciare l’opera d’arte dentro la sua indicibilità e conservare così il suo segreto. Quel segreto che fa parte «dell’inconscio dell’opera» e che ne rappresenta la sua magia. Le sue installazioni, disegni e sculture quasi sempre si palesano in una veste apparentemente effimera che, invece, tende a scavare e interagire con l’interiorità.

LA MOSTRA ROMANA è articolata, nella sua unitarietà, da oggetti che servono da indizio ai percetti, gli stessi che velatamente si stagliano in un orizzonte di pensiero dove visibile e invisibile si condensano fra loro e ne determinano il senso.
Nelle sale, fiocamente illuminate da una luce discreta, le opere si diramano armonicamente, costellando la grande installazione, realizzata semplicemente dalla disposizione parietale di ciotoline di vetro rotonde e dalle loro ombre, il cui significato ribadisce, senza forzature, lo sconfinamento dalla pura materialità alla sua impalpabilità e inconsistenza. Come per gli artisti della Minimal art, l’opera sconfinava dall’oggetto allo spazio che li conteneva, così Gregorio Botta disloca l’oggetto essenziale, «povero» in tutta la sua estensione immaginativa.

Per compiere un tale procedimento alchemico, utilizza materie e strumenti naturali e primari: acqua, fuoco, cera, ferro, terra e che, nella congiunzione che l’artista forgia, suggeriscono una processualità di sottrazione nel loro divenire opera e che inducono ad una attenzione più profonda per la loro percezione. Abbi cura di me, infatti, oltre a parafrasare il titolo di Calle, è soprattutto una asserzione (anomala) di vulnerabilità, attraverso cui, le incertezze e i timori (del tutto normali) dell’artista e del suo essere al mondo, vengono filigranati nella nudità della richiesta. È anche un atto di sincerità inaudito, in un «regno» (artistico) che non ne impone la necessità. Anzi.

BOTTA, REDUCE dalle sue ultime fortunate mostre internazionali (al Museo di arte contemporanea di Santiago del Cile e al Centro di arti visive La Pescheria di Pesaro) tenute nell’ultimo scorcio del 2016, può avanzare una ricerca ben consolidata. Forte di un alfabeto strettamente personale che insegue la spiritualità delle cose e non la loro apparenza, si stacca dall’omologazione linguistica imperante dell’era attuale e si distanzia dalla sua assuefazione. Quasi una boccata di ossigeno.

Eppure, è quella sua sensibilità febbrile, sempre mista al dubbio, che sommuove fragilità e potenza espressiva, sì da richiedere al visitatore la cura. Una cura che è attenzione, considerazione e applicazione nel cogliere l’essenza di una ricerca che si rivela soltanto scoprendone i suoi silenzi, i suoi balenii, le sue incrostazioni, le sue parvenze. In ragione di ciò le materie che la compongono sono plasmabili e i dispositivi che la inverano appaiono labili.

VICEVERSA, NELL’ERA del turbo-consumismo, l’opera così come qualsiasi altro prodotto è pressoché assoggettata alla sua affrettata fruizione e al suo facile/futile intendimento. Botta non ha mai facilitato al visitatore questa attitudine, anzi ne ha sempre ostacolato il suo rapido consumo. Abbi cura di me perciò dovrebbe rimanere un monito altrettanto esortativo quanto quello di Antoni Muntadas: «Attenzione: la percezione richiede impegno».