Daria De Florian e Antonio Tagliarini percorrono da tempo un itinerario teatrale molto personale, proponendo un teatro, e un linguaggio, che si nutre di quotidianità. Anche di quella più spicciola, e del pensiero incidentale mentre si è occupati alle necessità più banali (raggiungere una sala camminando sotto la pioggia, oppure pagare alla cassa di un supermercato all’ora di chiusura) di cui fermano e sottolineano degli aspetti, delle evocazioni o anche citazioni, che loro portano in scena come spunto/punto di partenza per pensieri più generali e di tutt’altro peso. Questa sintassi di visioni funziona ora più ora meno, anche se il ricorrervi continuo può non sollecitare la ripetuta curiosità. È stato divertente lo «sproloquio» del loro primo spettacolo, davanti al video dello spettacolo di Pina Bausch (il cui teatrodanza unificava le vocazioni di entrambi, attrice di ricerca lei, inizi da danzatore per lui).

Per arrivare alla sorprendente conclusione che quel Café Müller non l’aveva visto in realtà nessuno dei due. E non hanno mancato di spunti di interesse altri spettacoli loro, uno ispirato al romanzo greco sulle anziane signore che scelgono di morire davanti alla drammatica situazione di oggi nel loro paese; un altro che evocava il rapporto drammatico di una donna polacca con il socialismo reale, durante e dopo, nel proprio paese.

Certo, ora che quel modello di linguaggio ha ricevuto ampio credito, sembra difficile abbandonarlo. Anzi, un certo successo riscosso all’estero (in particolare in Francia) dà spinta a De Florian e Tagliarini per proseguire quel percorso, con Il cielo non è un fondale (all’India fino al 3 dicembre, presentati da Romaeuropa con una coproduzione di moltissimi partner). E il risultato può però apparire ambiguo. Non per pregiudizio rispetto al lavoro profuso dai due, ma forse per la difficoltà (magari un limite di chi ne è spettatore) di sentire affabulati insieme i problemi delle scarpe nella pioggia romana e il dramma di «clochard», e quindi di immigrati e migranti. Si è detto: è una scelta artistica quella di procedere in questo modo/mondo composito senza gerarchie di importanza o di interesse. È una libertà, anzi un diritto che non si discute. Peraltro condiviso da nugoli di drammaturghi e drammaturghe che ne hanno fatto, se così si può chiamare, un «genere». Come del resto molti romanzieri oggi .Non è il caso dello spettacolo in questione, ma certo può fare impressione udire le risate dal pubblico sulle immagini più corrive (peraltro un pubblico, alla prima, che si presentava di aficionados).

O ancor peggio sentire Monica Demuru (che insieme a Francesco Alberici completa questa volta il quartetto in scena) che dopo aver aperto con la sua voce strepitosa il racconto, personalizzando da par suo Il mondo di Jimmy Fontana e La città vuota di Mina, lo chiude mimando le voci delle cassiere del supermercato all’ora di chiusura. Sarà un peccato di autodenigrazione o una proclamazione di resa davanti allo stupidario massivo che siamo costretti ad affrontare?