La vicenda della sentenza della Corte di cassazione che ha confermato la condanna per frode fiscale inflitta a Silvio Berlusconi e delle reazioni che ne sono seguite non smette di stupire. A quanto già ho avuto modo di dire aggiungo, dunque, due cose.

Primo. Quando ero studente di giurisprudenza – ahimè molti anni fa – un professore di storia di diritto romano (non era una «toga rossa», tanto che fu anche sindaco democristiano di Torino) mise in guardia noi studenti dagli infortuni in cui poteva incorrere un giurista dimentico della storia. Provo dunque, per evitare infortuni, a ricordare come sono state letti e commentati alcuni precedenti dei fatti che ci occupano in questi giorni (e il cui nucleo centrale, aldilà delle chiacchiere, è la condanna di un evasore fiscale milionario). Il primo input ci viene da un grande storico dell’antica Roma, Edward Gibbon, che, in Declino e caduta dell’impero romano, così descrive la situazione della giustizia nell’età dell’imperatore Commodo (180-192 dopo Cristo): «L’attuazione delle leggi era diventata venale e arbitraria (…) e un criminale benestante poteva non solo ottenere l’annullamento di un giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piaceva». Il secondo input – che spiega come situazioni siffatte fossero (e siano) possibili – ci viene nientemeno che da Sant’Agostino che, in De civitate dei (scritto tra il 416 e il 423), osserva: «Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà i regni, se non bande di ladroni? E che cosa sono le bande di ladroni se non piccoli regni? Anche una banda di ladroni è, infatti, un’associazione di uomini nella quale c’è un capo che comanda, nella quale è riconosciuto un patto sociale e la divisione del bottino è regolata secondo convenzioni in precedenza accordate. Se questa associazione cresce fino al punto di occupare un paese e stabilisce in esso la sua propria sede, essa sottomette popoli e città e si arroga apertamente il titolo di regno, titolo che le è assegnato non dalla rinuncia alla cupidigia, ma dalla conquista dell’impunità». Ogni commento è superfluo.

Secondo. Fino a ieri si chiamava «impunità», oggi si chiama «agibilità politica» (sic!) e la via maestra per ottenerla è la grazia, richiesta a gran voce da consiglieri e sodali del condannato per evasione fiscale (pour cause anche leader di un partito politico di governo). Il capo dello Stato, titolare del potere di grazia, tirato – come si dice – per la giacchetta, ha ritenuto, opportunamente, di descrivere lo stato dell’arte su che cosa è la grazia e quali sono le procedure per istruire la relativa pratica (preliminare a ogni decisione e, ovviamente, impregiudicato il contenuto della stessa). Nella necessaria sintesi ha peraltro omesso di aggiungere un paio di profili sostanziali che non è inutile tirar fuori dal dimenticatoio. Con sentenza numero 200 del 2006 la Corte costituzionale ha chiarito «come – determinando l’esercizio del potere di grazia una deroga al principio di legalità – il suo impiego debba essere contenuto entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria». E, con un comunicato del 12 gennaio 2008 lo stesso presidente Napolitano ha precisato che «la grazia non può mai costituire un improprio rimedio volto a sindacare la correttezza della decisione penale adottata dal giudice». Questa ultima affermazione trova conferma nel messaggio che il presidente Scalfaro inviò ai presidenti delle Camere il 24 ottobre 1997 ove sostenne che «qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna», la grazia ha «il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell’ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto di fatto tra poteri». Anche qui – verrebbe da dire – senza commenti.

Intanto, per sostenere le ragioni della grazia a prescindere, si parla di giustizia politica, di «toghe rosse» e di Magistratura democratica. Ma questa è un’altra storia su cui ci si dovrà soffermare, a breve, diffusamente.